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Alma Mater è diventato termine che si riferisce alla propria università di appartenenza. a prima di diventare espressione idiomatica, l’Alma Mater Studiorum è l’Università di Bologna.

Il corso di intelligenza artificiale

Curioso che la prima Università del mondo sia anche la prima a delegare alle macchine l’intelligenza. In Italia, chiaramente, non nel mondo, al quale spesso in quest’epoca ci accodiamo per quanto riguarda le scoperte scientifiche e l’innovazione tecnologica.

Studiata in matematica e in informatica, l’intelligenza artificiale non aveva ancora avuto un corso di laurea dedicato. Anche se le indiscrezioni parlano già dell’anno prossimo, non ho modo di prevederlo non conoscendo nessuno in ambiente accademico bolognese.

Attendiamo la cronaca

Attendendo le cronache per avere notizie più certe, possiamo però fare delle speculazioni su questo uovo corso di laurea, o meglio dar forma a delle aspettative.

Quella più pittoresca che ho in questo momento riguarda i robot. Se l’intelligenza artificiale prevederà anche applicazioni pratiche, quale più d’impatto e immediata del robot che comunica con gli studenti? O se non un vero e proprio robot, visto che la robotica è una scienza che occupa molte energie ed è forse più tecnica e da prima linea piuttosto che materia di studio universitario univoco (ma forse), almeno una chat addestrata a rispondere a commenti umani in modo intelligente, sembrando umanoide, almeno a un primo impatto.

“Il corso di laurea sull’IA sarà attivato dal dipartimento di Informatica-Scienza e Ingegneria. Sarà completamente in lingua inglese e si concentrerà sulle discipline fondanti e applicative dell’intelligenza artificiale. Ci sarà però spazio anche per tematiche trasversali come le neuroscienze cognitive e le implicazioni etiche e sociali delle nuove tecnologie. Tra gli argomenti previsti dal piano di studi: visione artificiale, trattamento del linguaggio naturale, data science, ottimizzazione, sistemi di supporto alle decisioni.
Gli iscritti, una volta conseguita la laurea, potranno fregiarsi della qualifica di “specialisti in Artificial Intelligence”: figure tecniche altamente specializzate, con conoscenze informatiche e competenze specifiche su questo argomento, capaci di affrontare la progettazione, la realizzazione e la gestione di prodotti e servizi innovativi. Il mercato del lavoro, infatti, nei prossimi anni si avvia ad una profonda trasformazione. Un cambiamento epocale che coinvolgerà moltissimi ambiti – dai trasporti alla domotica, dalla medicina all’istruzione, dalla sicurezza al mercato dell’intrattenimento – e che la laurea già considera come campi di applicazione”. (fonte)

83,5% è una percentuale alta. Una percentuale che, prestando orecchio agli organi di stampa, non si attribuirebbe certo a una ascia dell’occupazione giovanile così difficilmente visibile per le ultime politiche governative, direi anche fortemente penalizzata dalla crisi: la ricerca.

L’Università di Bologna, attraverso i suoi strumenti di orientamento, sondaggistica, ha svolto un sondaggio tra i dottori di ricerca usciti dal suo Ateneo:

Il dato supera il 73,9% dei laureati magistrali biennali del 2016 ed è in linea, invece, con la quota di occupati tra i laureati magistrali biennali del 2014 tre anni dopo il titolo, che hanno toccato quota 85,6%. Oltre la metà sono donne, ma a fronte del 59,5% delle laureate di secondo livello nel 2017, le donne che scelgono un dottorato di ricerca scendono a quota 52,1%. (Fonte)

Sono 20 gli Atenei aderenti al COnsorzio di raccolta dati (“Almalaurea”), e quindi direi che il dato può essere statisticamente indicativo solo fino a un certo punto.

Detto questo, anche la percentuale di genere, sebbene possa sembrare confortante, non rispecchia le percentuali di iscrizione alle Università, andando a colmare un divario di genere che continua, nonostante le politiche in favore e nonostante le modificazioni culturali avvenute rispetto a quando andavo io all’Università, a esistere.

L’ambiente universitario va tenuto monitorato. La questione dei corsi in inglese al Politecnico di Milano non fa che aprire, come molte altre questioni universitarie, uno spaccato della classe dirigente italiana.

Questo è quello che avrei detto, in una situazione simile, negli anni ’80. Quando ancora le università erano a un soffio dall’essere massificate, quando ancora molti corsi si svolgevano a ciclo unico. Mi sentirei di dire che il prestigio dell’università, a livello comune, non è calato, ma compirei un’appropriazione indebita di un diritto a valutare che non spetta a me.

Ora, oggi più che spaccato di classe dirigente, possiamo forse parlare di cartina al tornasole della società. Più appropriato, vista come già detto la massificazione dell’università. E poi, sul fatto che la classe dirigente sia italiana, ci sono alcune parole da spendere.

Solo e soltanto corsi in inglese

Per capire la portata della sentenza del Consiglio di Stato, che ha negato al Politecnico di Milano il diritto di tenere i suoi corsi soltanto in inglese, vanno considerati diversi aspetti. Non tratterò di quelli logistici, che prevedono secondo me un dibattito piuttosto sterile: quando si decide per un provvedimento, tutte le misure per attuarlo vengono prese a posteriori, con alcuni piccoli sconvolgimenti, una fase di rodaggio, e poi l’applicazione.

Sebbene molti abbiano trovato l’esultanza dell’Accademia della Crusca del tutto anacronistica, io ritengo di vedere in questo provvedimento un guizzo di autorevolezza notevole.

Oggi nella “classe dirigente”, come la si chiamerebbe in senso marxista, l’inglese non è ossessione ma ossequio dovuto, quasi inintellegibile però. Nessuno loderà costumi anglosassoni, no, è ben compreso che questa lingua barbarica è un veicolo di spostamento delle nostre maestranze e illuminati concetti all’infuori della madrepatria.

Come la conoscenza del francese all’inizio del secolo scorso? Penso che la vedano così i promotori dell’internazionalismo esclusivo, ovvero quelli che promuovono i corsi al Politecnico solo in inglese.

Ma l’inglese di oggi non è il francese del secolo scorso. Ricordo che un cinese fatica a parlare in inglese, in molti casi non lo sa. Un emiro arabo, molto spesso a fatica. Un magnate sudamericano, lo ostenta magari. Stiamo procedendo a stereotipi, ma il mio punto è: se l’inglese non è più veicolo univoco di internazionalismo, perché non in tutto il mondo è lingua veicolo… Che senso ha l’eurocentrismo del metterlo come unica lingua?

Il rischio è sempre la parvenza di ossequio versa un’altra sovranità nazionale. E non il legittimo desiderio di internazionalismo, che di per sé è neutrale.

 

Mi sono poi scordato di aggiornare lo status del numero chiuso alle facoltà umanistiche alla Statale di Milano. Ne parlavo a settembre in questo intervento.

Vinto il ricorso al Tar, la facoltà ha deciso di non appellarsi al Consiglio di Stato sul numero chiuso.

Il numero dei partecipanti è stato così mantenuto aperto, come negli anni precedenti, per i corsi di laurea in Filosofia, Lettere, Scienze dei Beni culturali, lingue e letterature straniere, Storia, Scienze umane dell’ambiente, del territorio e del paesaggio. Esultanza dei collettivi universitari a parte, non sembra che in Senato Accademico fosse disposto a retrocedere, almeno a quanto si evince dai giornali.

Piuttosto, la necessità di garantire il regolare svolgimento delle lezioni ha avuto la meglio, la contingenza ha sopravanzato l’idea. Ma l’idea permane, solo penso avrà bisogno di un contraltare nazionale, per ora assente (il ministro Fedeli ha infatti mostrato assenso più verso la riapertura che altro).

Non sono incline all’appello accorato, ma riflettiamo quanto sia l’ammontare di capitale umano che si forma dietro quei portoni. Il numero chiuso renderebbe professionalizzanti dei corsi di studi che non sono nati per esserlo. Perché non mettere l’onesta premessa che “qui si studia per migliorare le proprie persone”? Capisco la frustrazione di non ottenere una adeguata remunerazione dopo anni di studio. Ma limitare il sapere? Se io volessi iscrivermi a Filosofia domani? Non ho necessità professionalizzanti, voglio solo avere i migliori insegnanti per veicolarmi la scuola di Francoforte, l’idealismo, voglio magari dare una veste strutturata all’ultimo libro che ho letto.

E’ una parzialissima analisi, come la precedente. Ma non può che suonarmi sospetta questa chiusura di numero, sospetta per il decremento della qualità globale dell’istituto universitario della prestigiosa Statale di Milano.

Il numero chiuso è stato deciso a maggio dal Senato Accademico della Statale di Milano (come racconta il Corriere di Milano qui). Vale per i corsi di Lettere, Filosofia, Storia, Beni culturali e Geografia. La scelta era motivata da insufficienza di personale docente, inadeguatezza delle strutture, necessità di messa in sicurezza…

Erano tutte ragioni comprensibili, ma non sufficienti per i collettivi universitari, che hanno fatto ricorso al Tar.

Queste facoltà verrebbero infatti stravolte dal numero chiuso, non solo a livello logistico.

Il numero chiuso in ambito scientifico esiste oramai nella maggior parte delle università italiane. Se ne può ascrivere la nascita alla legge Zecchino 264/99. Erano momenti di assestamento sulla normativa europea in merito alle figure professionali di medici, dentisti e odontoiatri e si cercava con piccoli adeguamenti di mostrarsi rispettosi delle scadenze.

Quella che pareva una garanzia di qualità è in realtà un principio non condiviso da tutti: non posso non pensare ai Mooc (Massive Open Online Courses). I Mooc offrono scorci su argomenti disparati, da ingegneria, a neuroscienze, a letteratura e arti visive. Anche il MoMa di New York propone un bellissimo corso di fotografia. Si stanno diffondendo negli ultimi anni, e sono tenuti anche da università prestigiose, Yale, Stanford, il MIT…

Capisco anche le limitazioni fisiche. Il digitale supera brillantemente le difficoltà legate all’atto di uscire di casa, o al cambiare città o Paese. C’è poi il “free”, in contrasto col prezzo della retta universitaria o del singolo corso.

Ma a livello di reputazione, siamo realmente sicuri che la limitazione dei posti sia un guadagno? O meglio, lo è per le facoltà non-scientifiche? Trovo sterile la constatazione che il mercato del lavoro è tutto fuorché filo-umanista, e di conseguenza senza numero chiuso si potrebbe fomentare un’illusione occupazionale.

Non accampo ragioni biografiche, visto che appartengo a un altro periodo storico. Penso però che limitare l’accesso ai corsi “culturali” significhi limitare un accrescimento culturale potenzialmente massificato.

Non ci resta che aspettare e vedere come si esprimerà il Tar.