Archives for posts with tag: Paolo Giorgio Bassi

Il Dizionario Filosofico fu pubblicato  anonimo nel 1764 con data di Londra, ma stampato a Ginevra, con il titolo originale “Dizionario filosofico portatile”. Un tascabile ante litteram , potremmo dire.

I bersagli

Metafisica studiata nelle scuole, assurdità della religione, abusi politici e sociali. Il ruolo dell’intellettuale nei confronti di questi temi si delinea più che mai nel Dizionario Filosofico, che per certi versi diventa anche un Prontuario all’azione, preludio forse all’engagement di natura più spiccatamente novecentesca.

Il segreto dell’efficacia sta sia nel formato tascabile, sia nel tono scherzoso con il quale vengono affrontate le tematiche bibliche.

Il sostegno all’Enciclopedia

L’opera vuole dare implicitamente sostegno all’Enciclopedia di Diderot e D’Alembert. Sebbene si sappia che il pubblico illuminato non potrà che essere minoritario, il tentativo verso la divulgazione è evidente, e a contrasto pure evidente contro l’elitismo e la massoneria dei saperi.

La prima voce, “abate”

Per iniziare sulla scorta dell’anticlericalismo, la prima è voce è nientemeno che “abate”. Il tono, decisamente ironico e parodistico. “L’abate spirituale era un povero e guidava molti altri poveri; ma i poveri padri spirituali ebbero in seguito ducento, quattrocentomila lire di rendita; e oggi in Germania ci sono dei poveri padri spirituali che hanno un reggimento di guardie!” Non è difficile intuire l’ironia ripetuta sottesa a questa iconica descrizione.

La filosofia di Voltaire è imprescindibile dall’eclettismo del suo formulatore: Voltaire aveva una passione per la società contemporanea e per i viaggi, oltre che per la politica e per le riflessioni utopistiche. La Royal Society fondata da Isaac Newton nel 1660 rappresenta per Voltaire un faro a cui ispirarsi. Indagine empirica e sperimentale, e insieme ragionamento matematico/logico, scevro da contenuti tradizionali e astratti. Soprattutto, scevro da dogmatismo.

Le lettere filosofiche

Il programma illuminista così declinato, cioé l’indagine empirica/teorica come pungolo alla creazione di cultura, è ampiamente enunciato nelle Lettere filosofiche di Voltaire. Senza, come ho già detto, grossi impeti teorici, Voltaire esprime comunque in modo semplice e chiaro un concetto che vale per i moderni come una realtà acquisita: non si prendono decisioni sull’uomo senza rivolgersi alla scienza. Le idee sono poi le stesse di Locke, Bayle, Spinoza, con la differenza che Voltaire le enuncia in tono da divulgatore, e ovviamente da pedagogo.

Imprudente e senza riguardi

Forse sulla scia di Jonathan Swift, forse per inclinazione personale, forse per attitudine teorica: Voltaire era considerato in società, per certi versi, un vero e proprio provocatore. Tra il 1726 e il 1729 fu costretto per questa sua lingua lunga a rifugiarsi in Inghilterra. Il viaggio acuì in realtà la sua tendenza alla satira, dando il sostrato reale alle sue prima solo utopistiche visioni: una terra senza pregiudizi c’era, ed era la tanto decantata Inghilterra.

L’armata degli intellettuali

Davanti ai facili personalismi e campanilismi dei filosofi, Voltaire si dispera. Come un’armata, gli intellettuali dovrebbero essere uniti per combattere il pregiudizio che tiene schiava la ragione umana.

Un’opera che ritengo utile come summa del pensiero di Voltaire è il suo noto Dizionario FIlosofico, di cui parlerò nei prossimi interventi.

E’ nel ‘700 che l’Europa divenne “una immensa repubblica di spiriti coltivati”. L’espressione è di uno dei padri dell’Illuminismo come lo conosciamo, e cioè di François Marie Arouet, in arte Voltaire.

Uno spirito non così radicale

Di Voltaire tutto si può dire fuorché che fosse incompreso. La sua grandezza era nota già ai suoi tempi, a dimostrazione del fatto che incarnasse perfettamente lo spirito di un’epoca. Se di Rousseau ammiriamo l’eloquio e il pensiero a tratti radicale, di Voltaire ammiriamo piuttosto la capacità di sintesi intellettuale dell’esistente. Fu un contestatore, e questo è innegabile, perché chi come lui prendeva a modello l’Inghilterra era parte di una èlite per certi versi avanguardista.

Perché l’Inghilterra

Perché proprio l’Inghilterra veniva presa a modella da Voltaire e dagli intellettuali suoi pari? Dopo la gloriosa rivoluzione del 1688 il principio della tolleranza era considerato quasi fondativo. La libertà d’espressione era ai suoi massimi storici, era l’epoca della nascita del giornalismo, la Chiesa esercitava una scarsa influenza. “In Inghilterra le arti sono tutte onorate e ricompensate; c’è differenza tra le varie condizioni , a tra gli uomini non c’è se non quella del merito… Vi si pensa liberalmente e nobilmente senza la remora di nessun timore servile”. 

Intanto in Francia

Grazie al prestigio internazionale di Luigi XIV, la Francia era comunque un partner commerciale e intellettuale di un certo calibro. Tuttavia l’esodo degli ugonotti generò anche una notevole propaganda anti-francese che non poteva che fomentare il giudizio di illiberalità che questa nazione si portava appresso.

Di tutto ciò Voltaire si servì appieno: se la Francia primeggiava nelle lettere, l’Inghilterra lo faceva nelle scienze e nelle innovazioni socio-politiche. Il che era un terreno fertilissimo per il giovane Francois Marie, appena uscito dal collegio gesuita e desideroso di confrontare i propri ideali con la realtà.

Nei prossimi post parlerò di alcune delle più celebri concezioni filosofiche di Voltaire.

Paradossale? Non proprio. E’ quello che accadrà alla Galleria d’arte Moderna, GAM di Milano.

La mostra in questione si chiama “Images of Italy, contemporary photography from the Deutsche BAnk collection”. Curioso che la location di un titolo del genere sia, per l’appunto, l’Italia stessa, ma si sa che la nostra esterofilia non conosce limiti… Scherzi a parte, non ho visto la mostra, inaugurata il 25 settembre e che chiuderà i battenti il 27 ottobre.


La prima mostra in Italia che presenta una selezione di opere fotografiche della Deutsche Bank Collection, una delle principali collezioni corporate d’arte contemporanea a livello mondiale.
È un percorso tra le immagini dell’Italia fermate dall’obiettivo dei più noti artisti italiani e tedeschi, quello che si snoda tra la Sala da Ballo, la Sala 29 e la Sala del Parnaso della GAM. La mostra comprende fotografie scattate a partire dagli anni Cinquanta e fino ai giorni nostri da Luigi Ghirri, Gabriele Basilico, Vincenzo Castella, Armin Linke, Candida Höfer e Heidi Specker, solo per citarne alcuni (Fonte: il comunicato stampa dell’evento).

Le opere di Images of Italy sono esposte nelle tre sedi italiane del Gruppo: il quartier generale di Milano Bicocca, l’edificio milanese di via Turati e la sede di Piazza SS. Apostoli a Roma.

La nuova inaugurazione dell’aeroporto di Linate è vicina, e quale migliore occasione promozionale che un concerto di Lorenzo Cherubini, alias Jovanotti? Idolo delle nuove generazioni, ma anche di qualche vecchia, il cantante si è ritagliato un palco d’eccezione per il suo Linate Beach Party, il concerto di chiusura del suo ultimo tour che ha fatto ballare le spiagge italiane.

Il palcoscenico di 100 metri, avrà di fronte uno spazio di 250 per 300 metri quadrati, con la previsione di 100mila persone presenti.

Ma ne prevedono 250mila per l’Air Show in programma per il 13 e 14 ottobre, evento sempre organizzato da Linate in occasione della riapertura.

Oltre 24 ore di intrattenimento musicale da tutto il mondo, 70 punti di ristorazione, aerei esposti, aerei storici esposti, voli di mongolfiere.

Gli spettacoli faranno dimenticare ai milanesi i disagi causati dai lavori in corso a Linate? Staremo a vedere

Inizia l’autunno e iniziano gli appuntamenti di una stagione artistica-culturale che si prospetta molto interessante. Oggi voglio sponsorizzare un po’:
http://www.arte.it/notizie/italia/l-agenda-dell-arte-al-cinema-16273.

Poliedrico, eccentrico, imprevedibile: con la sua arte Lindsay Kemp ha rivoluzionato le arti del XX secolo. Edoardo Gabriellini rende omaggio alla figura del danzatore, mimo, coreografo, attore e regista britannico con un documentario che è soprattutto una lunga intervista, interrotta il 24 agosto del 2018 dalla scomparsa della star. Se dal teatro Off-Off-Broadway al cinema d’autore in vita il camaleontico Kemp non ha fatto che sorprendere, offrendo ispirazione a personaggi come David Bowie e Derek Jarman, anche dopo la morte non è avaro di colpi di colpi di scena.
“L’idea è stata quella di mischiare più linguaggi, con materiali d’archivio e non solo, che si sviluppano attorno a una lunga conversazione sul divano della casa dell’artista a Livorno. Da qui Kemp ripercorre in modo libero e intimo alcuni momenti della sua vita e della sua carriera. Uno stimolo suggestivo a saperne di più e a riscoprire l’artista”.

Morto a Livorno, Lindsay Kemp era conosciuto nel mondo del pop per i video di David Bowie, o perché fu in contatto con Nureyev e con il Cirque Nouveau. Non bisogna dimenticarsi delle collaborazioni con Kate Bush, e con Peter Gabriel.

Un documentario sulla sua vita diventa, come spesso accade per le grandi personalità artistiche, un’occasione per ripercorrere la sua fitta rete di relazioni, umane e artistiche. Non mitizziamo la persona nel ricordo, ma raccontiamo da una soggettività quella che può essere un’intera epoca.

Arrivato all’apice della fama e dei riconoscimenti pubblici, Checov rimette a posto molti aspetti della sua vita, un attimo prima della morte per tubercolosi. Si sposa con un’attrice moscovita, compra una casa a Yalta, in Crimea, per trascorrere delle giornate vicino al mare respirando aria buona.

Ha appena scritto “Il giardino dei ciliegi”, tra sbocchi di tosse, consigli dei medici, e pressioni di Nemirovski e Stanislavski, da Mosca. Comincia a fare il punto dell sua opera artistica, e a chiedersi se tra i suoi 250 racconti ci sia mai stato un filo conduttore.

La verità

Mai si deve mentire. L’arte ha questo di particolarmente grande: non tollera la menzogna. Si può mentire in amore, in politica, in medicina; si può ingannare la gente, persino Dio; ma nell’arte non si può mentire. Mi si rimprovera di scrivere solo di avvenimenti mediocri, di non avere eroi positivi.

Ma dove trovarli, questi eroi positivi, se attorno a lui le strade non sono nemmeno lastricate, si muore di fame, l’ambiente provinciale, i godimenti sono piccoli e le gioie noiose.

Volevo solo dire alla gente in tutta onestà: guardate, guardate come vivete male, in che maniera noiosa. L’importante è che le persone comprendano questo; se lo comprendono, inventeranno sicuramente una vita diversa e migliore.

Muore tentando una cura in Germania, in compagnia della moglie.

Non ci sono eroi

Termina così la vita di un grandissimo di ormai due secoli fa, ma dalla modernità indiscutibile. I suoi non sono eroi, non ci sono palpiti di nazionalismo, nè fremiti politici tra i suoi pacati industriali, provinciali possidenti terrieri, aristocratici decaduti, ma nemmeno tra i suoi popolari. In lui c’è uno Zola senza eroismo.

Se una biografia non definisce la qualità artistica di un’opera, ho comunque voluto parlare di questo personaggio che fin da ragazzo mi ha sempre affascinato, con il suo tratto di deciso realismo, con la sua coerenza costi quel che costi.

Un uomo del nostro tempo forse, più che del suo.

Due sono stati i Gabbiani di Checov, se vogliamo considerare le rappresentazioni teatrali: uno, quello della prima, disastrosa rappresentazione. Come attori, dei msotri sacri dell’epoca, che declamavano a ogni occasione. Purtroppo il contesto della prima fu una serata in onore di una celebre attrice comica dell’epoca, quindi il pubblico iniziò la serata con una vena ridanciana che mal si accordava con i tempi dello spettacolo.

Il gabbiano 1

La prima rappresentazione fu il 17 ottobre 1895 al Teatro Alexandriskij di Pietroburgo. Tra il cast stellato, anche Vera Fedorovna Komissarzevskaja, nella parte di Nina, assolutamente all’altezza della parte come dimostrerà nelle successive rappresentazioni, ma stavolta fraintesa e non apprezzata dal pubblico. Checov non aspettò la fine dello spettacolo, uscì dal teatro senza salutare nessuno e chiese per diversi mesi agli amici di non nominare il triste evento. Dalla critica arrivò una stroncatura. Sembrava che la pièce non fosse destinata a riscuotere successo.

Il gabbiano 2

Gli scrive l’amico Nemirovic-Danceko, scrittore, drammaturgo nonché neo direttore del teatro d’arte di Mosca insieme al giovane regista Stanislavskij. COncordano insieme che il Gabbiano meritava di essere recitato una seconda volta, cosa della quale inizialmente Anton non era entusiasta. Ma vista una prova, con la bravura del giovane regista e degli attori, Checov si fece convincere.

Il successo della prima fu colossale. Alla fine del primo atto, il silenzio in sala. Poi l’applauso scrosciante. Un passo storico per l’inizio di un sodalizio che avrebbe portato l’incontro di due geni agli scranni della gloria letteraria.

Hippie, santone, maestro di vita: tutte le etichette affibbiate a Tolstoj vedono un necessario compendio: era un grande scrittore, un grande intellettuale, un convinto moralista.

Checov e Tolstoj

Di Tolstoj, Anton Checov leggeva tutto. Lo conosceva bene, di penna, e non ostentava la mis-conoscenza come forma di arroganza intellettuale, come pure si usa fare in diverse epoche storiche. Nel 1894, dopo un altro viaggio in Europa, a Checov capita finalmente l’occasione di incontrare Tolstoj dal vivo, e l’esperienza lo riempie di concitazione. L’incontro si svolse ovviamente a Jasnaja Poljana, la celebre riserva in cui lo scrittore dimorò a lungo e morì, dove si era fatto costruire appositamente un enorme frutteto in accordo con la polizia russa. “E’ pieno di talento e ha senza dubbio un cuore buonissimo ma al momento non sembra possedere un punto di vista a ben definito sulla vita” dice Tolstoj sul più giovane scrittore.

Vapore o scorza di betulla

La filosofia tolstoiana ha avuto un potente effetto su di me, ha guidato la mia vita per un periodo di sei, sette anni… Ora qualcosa si ribella in me. La ragione e il senso di giustizia mi dicono che vi è maggior amore per l’uomo nell’elettricità e nel vapore piuttosto che nella castità e nel rifiuto di mangiar carne. La guerra è un male, il sistema giudiziario è pessimo, lo so; ma non per questo devo camminare con calzature in scorza di betulla e dormire su una stufa.

Stima intellettuale

Sopra ogni considerazione però, Checov considerava Tolstoj, com’è naturale, un padre spirituale. Al di là delle considerazioni di natura pragmatica sulle scelte filosofiche, lo definì sempre come un genio, un maestro.

Tolstoj è una forza, ha un’autorità enorme, e finché sarà vivo lui il cattivo gusto in letteratura, la volgarità sfacciata e meschina, la vanità grossolana o irritante saranno respinte lontano.

Direi che possiamo considerarla un’attestazione di stima.

L’arte che domina ogni cosa.

Questo, in brevissima sintesi, il commento del prolifico scrittore non appena ebbe visto l’Italia. Un viaggio di piacere, quello di Checov, al quale si fece convincere dall’amico Aleksej Suvorin, direttore del maggiore giornale conservatore di Pietroburgo “Novoje Vremia” (Tempo Nuovo) . Insieme all’Italia, la Francia. In entrambe tornerà a distanza di qualche anno, quando la sua vita professionale e la sua fama di scrittore saranno ormai decisamente affermate.

Ma per questo primo, timido viaggio all’estero, Checov rimane incantato dalle bellezze della nostra penisola. Di Venezia dice:

“Mai in vita mia ho visto città più bella di Venezia. Qui tutto è scintillio e gioia di vivere”.

L’amore per l’arte è per lui il genius loci italiano:

“A parte la bellezza dei paesaggi e la dolcezza del clima, l’Italia è l’unico paese in cui ci si senta convinti che l’arte domina davvero ogni cosa. E tale convinzione infonde coraggio”.

Inutile dire che ho immaginato il contatto di un così sensibile drammaturgo con le macchiette dei personaggi della commedia dell’Arte, come doveva essere in ambienti extra-goldoniani.