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E’ senza veli la Milano della fashion week terminata qualche giorno fa.

Non è stata solo una kermesse di alta moda: sono state aperte per l’occasione:

la storica Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale, che il Comune mette a disposizione anche per le sfilate dei designer emergenti, supportati dalla Camera della moda, e il Museo della scienza e della tecnica e la Triennale. Ed entrare nel Teatro Lirico, benché ancora in corso di ristrutturazione, per assistere al defilé di Antonio Marras.

(Fonte: Il Sole24Ore)

La Scala ospita domenica sera la prima edizione del Green Carpet Fashion Awards Italia.

Non solo moda, non solo manifattura, ma cultura del bello che dalla Fashion Week in sé si dipana a altri campi d’applicazione artistica.

La valorizzazione di questi due teatri, poi, nati come massima forma di aggregazione culturale nel tardo ‘700. I salotti milanesi si raccoglievano nei loro palchetti alla Scala per discettare di politica, ma più spesso per spiare il corsetto del vicino, per parlare di scandali, per scambiarsi impressioni sul pittore più in voga… A luci semi-accese, con il concerto che invadeva i silenzi (e non, come oggi, viceversa). Lì si consumava la vita mondana di Milano. Alla Scala il teatro grande, al Lirico, originariamente “la Canobbiana”, il teatro piccolo.

Dobbiamo figurarcela chiaramente, l’inestimabile promozione che questi influencer ospiti a Milano possono consentire. Un’immagine colta con Instagram regala una diffusione molto più capillare di quella che l’advertising di un museo o di un sito riesca volontariamente a fare.

Quindi, se la trasversalità di una manifestazione di moda la rende meno autoreferenziale, i milanesi non possono che gioirne.

 

 

 

E’ a Milano il bar ispirato a Wes Anderson. Il cineasta, che si sta facendo strada fuori dalla nicchia estetica, comincia a diventare fenomeno diffuso e a contare all’attivo molte pubblicazioni di spessore. Non lo conosco benissimo personalmente, ma vedendo alcuni frame e li trovo perfettamente sovrapponibili al bar Luce nella Fondazione Prada.

Quel che conta è l’advertisement, dicono i ristoratori e gli operatori della notte, quando parlano degli ultimi trend in fatto di locali. Qui siamo di fronte a una multinazionale della moda, una certezza di marchio. In questo caso subentra una forma di mecenatismo interessato da parte di Prada, che con Wes Anderson ha già collaborato. Si parla di un mini-film di collaborazione, Castello Cavalcanti.

Mecenatismo come forma di ritorno economico, quindi. Wes Anderson sponsorizzato.

Un format che trovo di grandissimo successo, del quale ho già parlato in altre occasioni. La mano privata non può che costituire un respiro di sollievo per le nostre opere dimenticate e in-valorizzate. Questo caso però è ancora differente.

Qui un regista contemporaneo e uno sponsor si fondono. Il turismo culturale sarebbe dell’appassionato di film di Anderson che va a cercarne l’atmosfera in un luogo reale.

Ricreare un luogo di fantasia cinematografica non è certo una novità. Molti bar “a tema” annacquano l’autorialità originaria in un alleggerimento gustabile come i pop-corn della multisala. Come nella multisala, un pacchetto artistico (cinema/visione) viene scomposto, e viene fruito anche da chi ama soltanto il gusto dei pop-corn. Del cappuccino, in questo caso.

 

 

Il palazzo dell’Anteo a Milano inaugura finalmente la sua veste di tempio del cinema. Con ben 11 sale cinematografiche, tra cui una con film on-demand, una per i film in lingua originale e una con annesso ristorante. Per aggregazione si aggiungono una nursery e un Caffé letterario.

Molt suggestiva la scelta di intitolare le sale a cinema storici della città come Excelsior, Astra, President, Rubino, Astoria, Obraz. Si parla di sale ora chiuse.

All’inaugurazione Cristiana Capotondi e Claudio Bisio, che ha definito coraggiosi i soci dell’Anteo. L’orario d’apertura è sicuramente coraggioso e competitivo, dalle 10 del mattino fino all’una di notte. All’interno sarà presente anche la Biblioteca dello Spettacolo, con libri, documenti, saggi e cataloghi.

Quello spirito imprenditoriale di cui ho già parlato investe anche uno dei rami dell’industria dello spettacolo rimasti più vivi. La settima arte si può dire sia rimasta infatti una forma d’intrattenimento piuttosto popolare, anche purtroppo nel senso deteriore. Ma stavolta sono speranzoso: la programmazione della  sala Obraz prevede ad esempio “Il diritto del più forte” di Fassbinder e “L’infernale Quinlan” di Orson Welles, con una superba Marlene Dietrich.

Trovo innovativa l’uscita dal formato proiezione-sala buia-attenzione sul film. Come nei teatri d’opera di un tempo, nella sala ristorante (gestita da Eataly) si può mangiare guardando il film. Wagner introdusse il buio in sala, e mi Hitchcock la chiusura delle porte a film iniziato.

Ma staticità non è sinonimo di tradizione.

La tradizione è ciò che viene “tràdito”, raccontato, e non vorrei sfociare nella banalità, ma trovo una boccata d’aria fresca questa sala ristorante. Altra suggestione che mi evoca, le gigantesche chiese protestanti anglicane con ristorante all’interno. Più che di tradizione gastronomica parlerei proprio di traslazione di un bisogno culturale: da oggetto di attenzione assoluta, a primaria gioia della fruizione, accompagnabile liberamente con un atto come il pasto?

Sono speculazioni, ovviamente. Complimenti al coraggio dei soci dell’Anteo, comunque.

Penso che il concetto di free tour sia abbastanza indicativo dei grossi cambiamenti che sono intercorsi negli ultimi vent’anni nell’idea di promozione turistica.

Si moltiplicano online siti nei quali è possibile prenotare il cosiddetto “free tour” di una città. Solitamente, una grande capitale europea, una Londra o una Parigi, o una Berlino. La grandezza della città rende sensato quello che il Free Tour rappresenta.

Una visita inedita: il free tour solitamente esce dal convenzionale.

Mi è capitato qualche tempo fa di incappare a Londra in un gruppo di turisti attratti da una guida che pontificava sull’arte di strada. Il ragazzo, un giovane britannico spigliato, portava questa ventina di individui fuori da Marble Arch, dirigendosi in direzione opposta al centro.

Non ho seguito la comitiva ma ho poi approfondito. Coloro che conducono i free tour devono motivare i turisti raccolti a donare qualche soldo alla fine del tour, e per farlo lanciano la sfida sulla competitività più assoluta. Nei contenuti, intendo. Questo giro di street art è sicuramente qualcosa di impensabile per me, e nemmeno avrei saputo come prenotare. Ora vedo che esistono moltissimi siti dai quali è possibile prenotare comodamente una visita, da casa propria in fase di programmazione del viaggio, oppure a poco tempo di distanza dal tour, ovviamente nei limiti della disponibilità.

Trovo un segno dei tempi che questi giovani guide lavorino in assoluta assenza di qualsiasi garanzia di guadagno. Come gli artisti di strada, se vogliamo, ma in termini sociologici come gli agenti di vendita e gli artigiani: in comune con i primi, l’investimento nell’auto-promozione. Con i secondi, l’originalità del prodotto, che però in questo caso non ha nemmeno un prezzo fisso.

La net society rende indubbiamente più semplice questo scambio fluido di competenze. 

Ben venga per le città, nelle quali gli sguardi inediti si lasciano promuovere con l’incentivo di un guadagno. Per quanto incerto.

Il numero chiuso è stato deciso a maggio dal Senato Accademico della Statale di Milano (come racconta il Corriere di Milano qui). Vale per i corsi di Lettere, Filosofia, Storia, Beni culturali e Geografia. La scelta era motivata da insufficienza di personale docente, inadeguatezza delle strutture, necessità di messa in sicurezza…

Erano tutte ragioni comprensibili, ma non sufficienti per i collettivi universitari, che hanno fatto ricorso al Tar.

Queste facoltà verrebbero infatti stravolte dal numero chiuso, non solo a livello logistico.

Il numero chiuso in ambito scientifico esiste oramai nella maggior parte delle università italiane. Se ne può ascrivere la nascita alla legge Zecchino 264/99. Erano momenti di assestamento sulla normativa europea in merito alle figure professionali di medici, dentisti e odontoiatri e si cercava con piccoli adeguamenti di mostrarsi rispettosi delle scadenze.

Quella che pareva una garanzia di qualità è in realtà un principio non condiviso da tutti: non posso non pensare ai Mooc (Massive Open Online Courses). I Mooc offrono scorci su argomenti disparati, da ingegneria, a neuroscienze, a letteratura e arti visive. Anche il MoMa di New York propone un bellissimo corso di fotografia. Si stanno diffondendo negli ultimi anni, e sono tenuti anche da università prestigiose, Yale, Stanford, il MIT…

Capisco anche le limitazioni fisiche. Il digitale supera brillantemente le difficoltà legate all’atto di uscire di casa, o al cambiare città o Paese. C’è poi il “free”, in contrasto col prezzo della retta universitaria o del singolo corso.

Ma a livello di reputazione, siamo realmente sicuri che la limitazione dei posti sia un guadagno? O meglio, lo è per le facoltà non-scientifiche? Trovo sterile la constatazione che il mercato del lavoro è tutto fuorché filo-umanista, e di conseguenza senza numero chiuso si potrebbe fomentare un’illusione occupazionale.

Non accampo ragioni biografiche, visto che appartengo a un altro periodo storico. Penso però che limitare l’accesso ai corsi “culturali” significhi limitare un accrescimento culturale potenzialmente massificato.

Non ci resta che aspettare e vedere come si esprimerà il Tar.

Un procedimento coerente e fondato su un vero lavoro scientifico, quello che sta portando a Milano la possibilità iniziative notevoli e stimolanti nel campo dell’arte.

La reputazione di Milano e della sua attività espositiva è molto alta e questo ci permette di sviluppare delle collaborazioni prestigiose. Ci tengo a sottolineare che non si tratta di mostre pacchetto ma di collaborazioni che partono dal lavoro scientifico

ha dichiarato l’assessore alla Cultura della Città di Milano Filippo Del Corno.

Confermata quindi una strategia che rappresenta la realtà di Milano, una città di grande importanza, non solo economica e finanziaria, ma anche culturale. Sappiamo che il nostro capoluogo si distingue a livello internazionale per le attività proposte durante tutto l’arco dell’anno: dalle mostre ai musei, passando per i festival le fiere e anche semplici tour per la città. Adoro vedere Milano viva ed energica, mi rende fiero sapere che un numero sempre maggiore di turisti vengono da ogni parte del mondo per visitare, quella che in fondo è casa mia.

Di qualche giorno fa la notizia della collaborazione tra il museo del Louvre e il Castello Sforzesco per la mostra “Anima e corpo. Movimenti del corpo e emozioni dell’anima nella scultura italiana dal 1460 al 1520“.  Il percorso vede l’esposizione di centotrenta opere provenienti dal Met di New York, da Vienna, Berlino, da Londra e dalla stessa collezione di arte antica del Castello Sforzesco.

Numeri notevoli e partner notevoli, che si susseguiranno anche per il cinquecentesimo anniversario della morte di Leonardo Da Vinci, quando sarà riaperta al pubblico la Sala delle Asse dopo il restauro della decorazione di Leonardo, e per la mostra “Vesperbild. All’origine della Pietà vaticana di Michelangelo” in programma nell’Autunno del prossimo anno.

Procedimento accurato che porta risultati significativi

La vivacità stimolata dall’attività culturale cittadina è percepibile per chiunque frequenti Milano anche solo per un giorno. Non per nulla il numero dei turisti richiamati dalle tante iniziative della capitale economica continua ad aumentare. Questo dovrebbe far riflettere su quanto investire sulla cultura porti ad un ritorno in termini di sviluppo reale delle attività turistiche, soprattutto se l’investimento poggia su una città reattiva, che cammina già sulle sue gambe.

Dovessi descrivere la società londinese, dai mille volti e dalle infinite sfumature, probabilmente ripeterei ciò che ho detto precedentemente: la trovo nella sua flessibilità una metafora del mondo odierno, preda di un incessante sviluppo. Come ogni megalopoli ha molteplici ritmi interconnessi fra loro, nelle minime ore di riposo della città, c’è sempre chi va al lavoro e chi invece torna a casa o esce con altre persone. Londra è una città che vive di colori e profumi diversi che mischiano le diverse etnie e le differenti culture. Una cosa rimane innegabile, se lo si vuole, ogni giorno è capace di stupirci e farsi scoprire in modi sempre diversi.

Un modo tutto particolare per vivere questa capitale e scoprirne angoli inediti, è quello di lasciarsi trasportare dalla musica. Anche nel frastuono del progresso, la guida della musica classica riporta in realtà familiari, negozi deserti e bancarelle affollatissime. Non è certo un caso che il più vecchio negozio di dischi di tutto il mondo, lo “Spillers Records”, sia inglese.

A prescindere dal genere musicale a cui ci si appassiona, scoprirne la versione in vinile rimane un modo di vivere e scolare la musica davvero unico, a cui diventa veramente difficile rinunciare.

Società che non vuole perdere una magia passata

In questi anni la vendita dei vinili nella capitale londinese sta prendendo sempre più piede, permettendo così a chi se ne occupa di poter sviluppare idee nuove ed eventi, che permettano anche ai più giovani di venire in contatto con questa realtà. Si organizzano così dj set, concerti, mostre ma anche biblioteche del vinile. Una vera e propria arte quella della musica su giradischi che i cittadini del mondo non sembrano voler abbandonare. Il progresso tecnologico ha aggiunto nuovi modi di fruire la musica, sempre più veloci e privi di ostacoli, tuttavia credo che proprio questo modo vorace abbia lasciato spazio a un’esigenza diversa in molte persone: la necessità di un rito rilassante che accompagni l’ascolto della musica. La ricerca del vinile in pittoreschi angoli delle città, il suo montaggio sul giradischi in una sala silenziosa, accompagnato da una meditazione musicale in poltrona.

Solo lasciando fuori dalla porta le corse frenetiche per risalire i gradini della scala sociale frammentata, tipica del mondo odierno, riuscirete ad apprezzare la calma e la pace di un buon disco.

Giudice severo che scatena emozioni da cui non possiamo fuggire: la poesia torna al centro della cultura milanese con un festival a lei dedicato. Una vetrina interessante, con un particolare sguardo di approfondimento sulla situazione donna oggi e sulla lingua italiana, la più bella del mondo.

Poesia, tema controverso e amore tormentato. La si ama o la si odia, non vi sono spazi nel mezzo. Sia che si parli della poesia con accezione più classica, sia che se ne parli in chiave moderna, questa elevata forma d’arte nasce per descrivere i sentimenti che ci coinvolgono e sconvolgono nel quotidiano. È un giudizio che ci lascia disarmarti, si dirige direttamente alle nostre emozioni, lasciando poco spazio alla logica e alla razionalità. Mi sono sempre stupito di quanta potenza abbia questa arte, di quanto possa far tremare le nostre certezze riuscendoci a leggere dentro. Bastano poche righe e tutto si compie.

Dando uno sguardo alla mia libreria un dolce ricordo mi sopraggiunge: nelle calde giornate primaverili ero solito prendermi qualche istante per me, in quei momenti di calma, di pace, adoravo sedermi nel parco e leggere. Ricordo con piacere Montale. Meraviglioso come ci si possa ritrovare a provare gli stessi sentimenti di uno sconosciuto, come tramite ad una lettura si venga catapultati in una sensibilità del tutto nuova.

La poesia da giudice dell’esistente a concreta opportunità

La poesia è sempre stata un giudice della realtà: quando impietosa ci mostra, senza appello alcuno, la deriva della nostra società, quando senza filtri ci rivela la disperazione che molto spesso siamo noi a creare. Opportunità e gemma di speranza quando la si sfrutta come punto di partenza, come base per non dimenticare.

Come meglio concludere questa breve dissertazione se non proprio con una poesia, una di quelle che lasciano il segno, una di quelle dalla quale non ci si può nascondere. Eugenio Montale:

Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale

e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.

Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.

Il mio dura tuttora, né più mi occorrono

le coincidenze, le prenotazioni,

le trappole, gli scorni di chi crede

che la realtà sia quella che si vede.

Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio

non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.

Con te le ho scese perché sapevo che di noi due

le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,

erano le tue.

La condanna forte e decisa alla guerra e alle sue atrocità trova in Guernica, la grandiosa opera d’arte dell’artista spagnolo Pablo Picasso, una delle sue denunce più forti ed emotivamente turbanti.

Proprio in questi giorni, il 26 Aprile ricorre l’anniversario del bombardamento del quartiere spagnolo che dà il nome all’opera, bombardamento che colpì non obbiettivi strategici ma gruppi di civili. L’atrocità di quell’avvenimento scosse a tal punto Picasso che in breve tempo stese l’opera dall’enorme grandezza di tre metri e mezzo di altezza e quasi otto di lunghezza. Venne esposta alla Mostra Universale di Parigi del 1937, la cui istallazione ne decise il senso di lettura da destra verso sinistra.

Io ho avuto la fortuna di poter vedere fisicamente questa straordinaria opera, anche se vedere in questo caso particolare risulta riduttivo. Si viene letteralmente sovrastati, travolti e sconvolti. Questa è la sensazione che l’artista vuole far provare a chi si trova davanti a questo capolavoro, per far rendere conto allo spettatore, anche che in minima parte, lo sconvolgimento delle persone strappate alla loro semplice quotidianità. Inutile dire che ci riesce benissimo.

Picasso è un pittore particolare e non amato da tutti, ma che lo si ami o meno, qui non è importante. La totale assenza di colore, la struttura del disegno in cui lo spazio è completamente schiacciato, le figure con i tratti volutamente così deformati, la scomposizione del tutto. Sconvolgente. Io ricordo di essere rimasto scosso da quella visione, probabilmente anche perché chi è della mia generazione la guerra la ricorda e la sente vicina, anche solo avendo ascoltato i vividi racconti dei genitori.

Una condanna che giunge fino ai giorni nostri

Un quadro ideato per rappresentare una strage di civili, gli orrori di una guerra passata, ma guardandolo non si può non percepire quanto Guernica sia attuale.

Le stragi che continuiamo a portarci dietro mettono noi esseri umani sul banco degli imputati, ci ricordano come possiamo essere giudici, testimoni, carnefici e vittime insieme.

Guernica però ci ricorda che c’è anche una speranza, speranza nel cambiamento, speranza che l’esperienza di queste insensate atrocità ci faccia unire in un vivere civile collettivo. Relegando la violenza nel passato, in bianco e nero, come il mondo estremo e polarizzato che sottende.

L’inchiesta è una forma di giornalismo investigativo rischiosa e complessa, la pazienza e la capacità di cogliere l’attimo è fondamentale, soprattutto per i fotografi che se ne occupano. Il ruolo dei fotografi nelle inchieste è fondamentale e il loro ruolo credo ci abbia affascinati tutti in passato, condensare la loro capacità artistica in un attimo, con attrezzature complesse come teleobiettivi e grandangolari su macchine di metallo, fantastico. Ora che noi tutti abbiamo la possibilità di scattare centinaia di foto senza alcun costo e girare video senza apparecchiature specializzate, si parla con maggiore insistenza di fotogiornalismo, di Citizen Journalism, di gente comune che si trova nelle condizioni di documentare un fatto.

Molte di queste fotografie ora sono vera e propria storia. Chi non si ricorda della famosa foto scattata da Will Counts che ritraeva una delle prime studentesse afroamericane che, nell’ingresso a scuola, dovette affrontare la discriminazione dei compagni? La durissima foto vincitrice del Pulizer con il bambino e l’avvoltoio di Kevin Carter, che denunciava la situazione di malnutrizione in Sudan? La cruda fotografia di Nik Ut che rappresenta l’uso di Nalpalm in Vietnam? Il dolce bacio di Eisenstaedt come segno della fine della seconda guerra mondiale? O ancora la rappresentazione della protesta in piazza Tienanamen di Widener? Foto piene di pathos ed emozione senza alcun dubbio, impresse nella mente di tutti.

La fotografia d’inchiesta è considerabile arte?

Credo sia lampante che la  maggior parte di queste foto siano entrate nella vita di tutti noi, anche se nati in epoche diverse, anche se si tratta di fotografie che per alcuni rappresentano un passato lontano. Questo tipo di fotografia, come l’arte suscita emozioni fortissime. Rappresentano gioia, disperazione, anche la morte. Come non farle entrare nel mondo artistico quindi? Personalmente non credo che la fotografia possa essere considerata solo un mero strumento. Foto come queste ne sono l’esempio. Superano barriere culturali, linguaggi, epoche, trasmettono emozioni, proprio come è scritto nel DNA dell’arte.