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Macbeth in Sardegna, da quale classe sociale sarebbe stato rappresentato? Così sarebbe portato a chiedersi il sociologo che lo tentasse di attualizzare, secondo la buona pratica di un filone tardo ottocentesco di recupero d’ambiente arcaico per veicolare il moderno. Non amo personalmente l’attualizzazione nel suo senso topico, ovvero non amo che l’ambiente prenda il sopravvento su quello che dovrebbe essere lo spirito hegeliano dell’opera, che l’autore voleva pervasivo e degno di essere ricordato dai posteri.

Il rispetto per il contesto storico, insieme allo sguardo strutturalista crea in me un ingenuo e generico “rispetto del testo”. Ma tant’è, e applico il criterio al selvaggio “Macbettu” di Alessandro Serra, spettacolo che non ho visto ma del quale vengono date abbastanza sinossi sulla rete. Una caratteristica della critica teatrale da web è che racconta molti più dettagli logistici di quello che faceva la critica “colta” di un D’Amico, ad esempio.

Quindi, io so che lo spettacolo è in logudurese. E che la traduzione del testo shakesperiano prevede alcune variazioni di trama consistenti. Inoltre, dicono, il testo si sviluppa come un canto, il protagonista è un pescatore. Però, attenzione, se qualcuno sta storcendo il naso nel sentire l’odore della paventata attualizzazione, non temete, gli attori sono tutti maschi. Come nel più tradizionale teatro elisabettiano.

Macbeth in Sardegna è quindi il pescatore ambizioso e cantante

La moglie, come la Lady Macbeth nella comune memoria, lo spinge quindi ad avere ambizioni sociali superiori. Non recupero informazioni su come avvenga la coercizione, difficile da rendere in un contesto di “canto”, quale descrivono la pièce.

Il canto forse sostituisce, formalmente, la ritmica della versificazione, aggiungendoci la melodia, e questo può risultare un ammicco alla tradizione della Grecia dei classici.

Non ci è dato saperlo. In ogni caso, sicuramente la visibilità che stiamo contribuendo a dare a quest’opera dipende molto dall’hazard del titolo e poco dalla conoscenza del suo contenuto. Sapere poi che l’opera è stata ispirata da un reportage nei carnevali della Barbagia non contribuisce a togliermi i dubbi di attualizzazione selvaggia e assai poco rispettosa dello spirito del testo.

Mi domando perché non “Amletu”.

Riporto da Ansa:

VENEZIA, 15 DIC – Il cda della Biennale di Venezia, su proposta del presidente Paolo Baratta, ha deciso di nominare Ralph Rugoff direttore del settore Arti Visive con lo specifico incarico di curare la 58/a Esposizione Internazionale d’Arte del 2019. La rassegna si terrà dall’11 maggio al 24 novembre 2019; vernice 8, 9 e 10 maggio; inaugurazione al pubblico sabato 11 maggio.
Per Baratta “l’incarico a Ralph Rugoff conferma l’intenzione della Biennale di qualificare la Mostra come luogo di incontro tra il visitatore, l’arte e gli artisti. Una Mostra che impegni i singoli visitatori in un diretto confronto con le opere nel quale la memoria, l’inatteso, l’eventuale provocazione, il nuovo e diverso possano sollecitare lo sguardo, la mente e l’emozione di chi osserva, dandogli l’occasione di una intensa e diretta esperienza”. Rugoff dal 2006 è direttore della Hayward Gallery di Londra.
E’ stato tra l’altro direttore artistico della XIII Biennale di Lione.

Ho letto qualcosa di Rugoff durante gli anni ’80, quando scriveva di critica d’arte.

Una penna agile, e alcuni pareri fulminanti

Apprendo ora si è occupato di artisti del calibro di David Hammons, Mike Kelley, Paul McCarthy, Luc Tuymans, Andreas Gursky, Jean-Luc Mylayne, Raymond Pettibon e Jason Rhoades. Non uno sprovveduto, ma comunque un abito giovanile, come si attaglia alla Biennale.

La direzione precedente della biennale di Lione lascia ben sperare in un lavoro quantomento d’impatto sull’audience. Tenere alta l’attenzione della stampa non è facile, anche se la rilevanza di questa manifestazione è grande. Forse è arrivata a superare la necessità stringente di advertising, per quanto sia sempre necessario, ovviamente.

La scelta di un americano è in linea con la poca attenzione alla nazionalità che questo tipo di assegnazioni stanno assumendo. D’altra parte, può sembrare assurdo il vincolo campanilistico fine a se stesso. Cecilia Alemani era un volto molto più noto nel panorama nazionale, certo, ma non bisogna dimenticare la forte impronta internazionalista che la Biennale ha ormai assunto. Che impone, sempre a mio parere, che l’advertising prosegua com’è ora, rivolto ad alcuni bersagli esteri.

Per ora reperirò una raccolta di saggi di Rugoff. Si intitola “Circusa Americanus”. Speriamo.

Fu prima di diventare uno dei tenori wagneriani più famosi di tutti i tempi, tanto da essere invitato a Bayreuth, che il giovane tenore Giuseppe Borgatti si ritrovò a cantare alla prima a LaScala dell’Andrea Chénier. Era il marzo 1896 e il verismo era tendenza che bel si accoppiava con le istanze sociali della giovane monarchia italica.

Umberto Giordano infatti ha impostato buona parte della sua carriera su questo filone, con Fedora, cantato alla prima nientemeno che da Enrico Caruso. Il Voto anche, e Marina, opera prima con la quale partecipò a un concorso operistico poi vinto da Cavalleria Rusticana.

L’Andrea Chénier

L’Andrea Chénier non è opera per chi ha gusti tradizionali. I vocalizzi sono molti, e soddisfacenti solo se avete la fortuna di trovare un inteprete che sa colorare senza risultare forzato. A mio personale parere, anche un inteprete che non vibra troppo nei momenti di virtuosismo.

Storicamente le rappresentazioni di questo spettacolo sono diminuite dopo i primi trent’anni di continue riproposizioni, ma la popolarità dell’opera mi sembra che sia rimasta notevole. LaScala ha scelto di aprirvi la nuova stagione operistica, con un tenore azero che non conosco, Yusif Eyvazov. La controparte femminile è l’istrionica Anna Netrebko, che si sta facendo un discreto nome nella scena italiana e internazionale.

Il libretto è di Luigi Illica e si ispira a André Chénier, poeta francese vissuto in età rivoluzionaria. I buoni sentimenti rivoluzionari sono indorati dall’aura di positività semplice che accomuna la gran parte delle coppie tenore/soprano protagoniste nelle opere tardo-ottocentesche.  Il baritono, che nel triangolo assume solitamente il ruolo di oppositore, qui è entrambi. Anch’egli è innamorato di Maddalena, la giovane nobile che viene però conquistata dall’idealismo rivoluzionario di Chénier. Sarà la sua nefasta intercessione a far condannare a morte il poeta dal tribunale di Robespierre (salvo poi pensirsene entro il terzo quadro).

Infine il verismo, come prevedibile, si annacqua, e i due amanti muoiono, mentre il baritono si dispera.

Una bella opera, che consiglio a chi ama il virtuosismo, e a chi digerisce questo genere di trama.

E’ stato in scena fino a ieri il Mercante di Venezia al Teatro Fontana di Milano.

La regia di Filippo Renda ha voluto restituire alla pièce l’attualizzazione della quale sembra non si possa fare a meno quando un autore supera la soglia del normalmente rappresentato e entra nell’Empireo dei Grandi.

Di  Shakespeare si conta anche una versione cinematografica dell’attore hollywoodiano Michael Fassbender, che ho visto e trovato sorprendentemente onesta nella filologia, e insieme carica di quella modernità testuale intrinseca che le opere del Bardo hanno. Forse, l’esperienza della commedia, forse il tono tragico sempre mediato da un realismo non timido e molto teatrale.

Fatto sta che la questione che ci si pone di fronte a un Mercante scanzonato, circondato da personaggi scanzonati, con i toni tra il grottesco e il superficiale del presente magnifico e dalle sorti progressive, è: ma perché Shakespeare? Il tema della giustizia sembra essere il rovello di quest’opera, che lascia sospesa la questione della “pound of flesh”.

Un piccolo suggerimento, per la prossima attualizzazione: nel Mercante originale, la questione è risolta.

Sempre più incuriosito dal fenomeno del free touring, di cui ho già parlato. 

Credo che prima o poi mi spaccerò per un turista statunitense e parteciperò a una di queste esperienze di economia “dal basso”.

Duomo, Piazza Mercanti, Castello Sforzesco, Teatro alla Scala, San Bernardino alle Ossa, Università Statale, Galleria Vittorio Emanuele II.

“…And much more” recita uno dei tour più convenzionali. Non so cosa proporrei se avessi ancora l’età per imbarcarmi da guida in questo genere di avventura.

Probabilmente una “Milano degli Sforza”, con approccio tematico a tutti i monumenti e ai luoghi simbolo di questa rinomata famiglia italiana. O magari un tour dei teatri, con le principali prime che hanno contribuito a renderli famosi. Con una necessaria parentesi storica sull’epoca nella quale ogni tetro è stato in auge, qualche curiosità morbosa sulla vita del castrato 500esco di turno… Reperire queste informazioni nella memoria è tanto più difficile, quanto è facile ricordarle quando le si sente come unica nozione relativa a una città.

Avrei sicuramente trasferito la saggistica sociologica che studiavo a considerazioni abitative, attuali. Le gentrificazioni, l’abusivismo edilizio, le vie “della moda”, “della finanza”… Se penso a quanti differenti percorsi tematici si possono affrontare in una città come Milano, quasi rimpiango di non essere nato in tempi più recenti.

Prima o poi partecipo.

Tra i declivi verdeggianti di Varallo, sulle sponde del Sesia, nasce per volontà di un pellegrino di ritorno dalla Terra Santa il Sacro Monte di Varallo. Siamo alle soglie dell’età moderna e il culto delle reliquie è in piena auge. Il Sacro Monte si presta alla riproposizione dei luoghi sacri della via Dolorosa di Gerusalemme, e qui si crea un culto destinato a durare nei secoli.

Ci passeranno reali e santi (il più celebre Carlo Borromeo). Ma soprattutto lascerà la sua impronta Gaudenzio Ferrari, il Michelangelo piemontese. Le statue in legno colorato dell’annunciazione, dei personaggi del presepe, fino alla cappello dei Magi, sono calde e potenti.

Se di Michelangelo vero e proprio non parliamo, è vero che così è ricordato l’artista da certa critica.

Dal 23 marzo al 1 luglio 2018 è stata annunciata una grande mostra sull’artista cinquecentesco nelle tre sedi di Novara, Vercelli e Varallo Sesia.

I curatori, Giovanni Agosti e Jacopo Stoppa, promettono incognite espositive. Sul percorso, l’assessorato alla cultura di regione Piemonte assicura che una grande parte sarà riservata alla didattica, sulla quale conviene investire. Sia per i finanziamenti che si possono ricevere in vista dello status di progetto didattico, banalmente, sia per la maggiore e garantita diffusione.

Dal punto di vista scolastico, visto quanto si parla ultimamente di didattiche alternative, la visita alla mostra è sicuramente interessante. Gaudenzio Ferrari si presta poi alla facile comprensione, con la sua matericità, i volti eloquenti, ma anche con la storia semplice che nella maggior parte dei dipinti veicola.

A Varallo, la stori evangelica. A Novara invece la storia della sua maturità, nel periodo più manierista e “alla moda” con le tendenze pittoriche del momento. Come non ricordare il michelangiolesco polittico della basilica di san Gaudenzio di Novara?

O, in Cattedrale santa Maria Assunta, lo Sposalizio di santa Caterina, di quasi dichiarata ascendenza raffaellesca?

Un’occasione da non perdere.

Gaudenzio Ferrari, Statue in legno dei Magi, Sacro Monte di Varallo

 

Mi ha divertito molto l’incipit sul Sole online di un articolo di Fubini sulla crescita prevista del pil italiano.

Da venerdì sera, con il giudizio favorevole di Standard & Poor’s, anche l’Italia è invitata al party. Per ora si aggira con un bicchiere di succo di frutta in mano e molta circospezione.

I gestori di fondi esposti sul debito pubblico italiano hanno dovuto prendere anche atto dell’annuncio che la Bce dimezzerà il ritmo degli acquisti di nuovi titoli di Stato.

Ma come la vede Fubini, è comunque un’Italia astemia quella che emerge. Ancora, la ripresa non è strutturale. Sebbene la nostra crescita per abitante dal 2015 abbia iniziato a superare la Francia (+0,8% cumulato di scarto nell’ultimo biennio) e nel 2015-2016 addirittura la Germania (+0,3%).

Sebbene

Il made in Italy ha venduto per 128,9 miliardi nel resto del mondo, il made in France per 124,8. Nei primi sei mesi il fatturato dell’export italiano è salito dell’8% sull’anno prima, quello tedesco del 6%, quello francese del 4% e questi ritmi resteranno per tutto il 2017.

L’importazione continua a essere più alta dell’export. Produttività e efficienza, se viste nel contesto Ocse, continuano a renderci poco competitivi.

Concepisco questa come la seconda parte dell’intervento che avevo già scritto, lo ammetto, sull’onda dell’entusiasmo generale.

Per quanto l’entusiasmo non faccia parte della mia sfera professionale, nè dei giudizi di S&P.

 

(Questa è la fonte dei brani che ho citato)

Alla Met Fifth Avenue omaggeranno il “Divine Draftsman and designer” Michelangelo Buonarroti.

Il Metropolitan Museum of Art dimostra, come necessario per un museo del suo calibro, un costante interesse per il Rinascimento italiano e in particolare per l’aspetto disegnativo di questo suo colossale esponente. Draftsman Michelangelo lo fu sicuramnte, prima ancora che cimentarsi nell’arte figurativa a tutto tondo rappresentata dalla pittura.

Sono annunciati per l’esposizione più di 130 disegni, tre sculture e il suo primo dipinto da aspirante artista, realizzato a quanto pare quando era appena dodicenne.

L’aspetto disegnativo di Michelangelo è in effetti iconico, non solo come storia dell’arte da qui al passato, ma anche nella percezione comune. Un tondo Doni e un Mosé, cosa possono avere in comune se non la fattezza, l’humanitas che anni di scuola dell’obbligo hanno contribuito a fissare nella nsotra memoria?

“Draft” è quindi diventato il tema dell’abilità creativa di questo artista. Una draft-star, direi!

Altro gran disegnatore italiano omaggiato nel 2003, sempre dal Met, è stato Leonardo. Chi se non lui aveva fatto del labor limae della matita un fattore altamente distintivo? Un altro autore italiano iconico, peraltro.

Ricordo il celebre cìparagone che sif aceva tra i due, raffrontando i cartoni della battaglia di Anghiari e di quella di Cascina. In quella michelangiolesca di Anghiari, i corpi contorti si avvinghiano con precisione anatomica e un moto costaante e circostanziato alla scena. Diversissima da quella Cascina col cranio dell’uomo dall’espressione disumana così evidente. A ricordarci in realtà la disumanità del realismo, stavolta non affibbiato a una classe sociale ma alla crudezza della guerra, come fatto interiore prima che come dinamica collettiva.

Fatti entrambi per essere esposti nelle sale di Palazzo Vecchio, i due cartoni non furono in realtà mai completati dagli artisti originari. Aristotile da Sangallo finisce Michelangelo, mentre Leonardo è consegnato all’umidità dell’ambiente e completamente perduto.

Sebbene la nota mensile sull’andamento dell’economia, prodotta dall’Istat, sia da prendere in un contesto e non come valore assoluto: mi sento quasi di tirare un sospiro di sollievo.

Non mi sono pronunciato finora troppo sulla “ripresa”, i cui effetti sono meno evidenti della crisi.

Riporto dei dati letti qualche giorno fa sul Sole 24ore:

La revisione dei Conti economici trimestrali, rileva l’Istat, ha evidenziato nel secondo trimestre un aumento congiunturale del Pil pari al +0,3%. La domanda nazionale al netto delle scorte ha contribuito per 0,3 punti percentuali alla crescita del Pil (+0,1 i consumi delle famiglie e +0,2 gli investimenti fissi lordi). L’apporto della variazione delle scorte è stato positivo per 0,4 punti percentuali, mentre è risultato negativo quello della domanda estera netta (-0,3 punti percentuali). Con un aumento congiunturale delle importazioni di beni e servizi (+1,2%) e una variazione nulla delle esportazioni. Dal lato della domanda, è proseguito l’aumento dei consumi finali nazionali. Seppure con una dinamica più lenta di quella registrata nel trimestre precedente (+0,2% la variazione congiunturale in volume, da +0,6%).

Ricordavo di averlo scritto in qualche forma, per quanto io non mi sbilanci a seguire questi megafoni che inneggiano alla ripresa, come non mi sono mai stracciato le vesti pontificando sulla crisi economica. Citavo Robert Coen e la necessità di investimenti infratrutturali. E l’export, e la competitività… Volendo essere iper-sintetico mi sono rifugiato magari nel mantra.

Vediamo se il sospiro di sollievo dura.

Nei telegiornali di questi giorni abbiamo occasione di intravedere alcuni scorci della Catalogna, e di Barcellona, che solitamente non trovano spazio sulle cronache internazionali.

La Pedrera, o casa Milà, è uno di questi.

Con i suoi piani ondulati, gli abbaini sul tetto, tortili, che comunicano comunque solidità. Un capolavoro del modernismo, ultima opera di Gaudì prima di abbandonare l’architettura civile e dedicarsi anima e corpo alla Sagrada Familia.

“La Pedrera” vista dalla strada, Barcellona

Si chiama Milà per il committente, l’imprenditore Pere Milà i Camps, insieme alla moglie Roser Segimon i Artells. Ne esce un’enorme casa di 9 piani di oltre 1300 metri quadri per piano. Gaudì iniziò a progettarla come un’unica curva costante, sia all’interno che all’interno, incorporando  geometrie più rigorose ed elementi naturalistici.

All’esterno il risultato è mozzafiato. Il piano terra originariamente doveva essere il garage, mentre il piano principale la residenza privata dei Milà e gli altri spazi sarebbero dovuti essere adibiti a oltre 20 case che i proprietari avrebbero affittato.

Poi, il tetto, incoronato da scalinate, ventole e abbaini che sembrano comignoli. E’ irrisorio il confine tra elemento architettonico e scultura decorativa, e a mio avviso curioso quando si parla di modernismo.

All’interno sono rimasto colpito dai soffitti, e dalle porte in legno intagliate a mano. Come per casa Battlò, l’architetto si occupa personalmente anche degli elementi di design, l’arredamento, le luci, il mobilio…

Molto divertente è l’aneddoto secondo il quale la signora Milà si lamentasse dell’onnipresenza del tocco dell’architetto, che aveva personalizzato al tal punto da non consentirle di aggiungere mobili, viste le pareti curve. Per questo motivo alla morte di Gaudì alcuni mobili vennero rimossi e l’aspetto originario della casa venne lievemente modificato.

Ciò non le impedisce di essere insignita come patrimonio mondiale dell’Umanità dall’UNESCO. Oggi è il quartier generale della fondazione Catalunya-La Pedrera, la quale gestisce le esibizioni, le attività e le visite turistiche.

La consiglio vivamente, magari in un momento di maggiore stabilità politica.