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Nulla di quanto ho detto in merito al traduttore automatico, anche nella seconda parte, deve far credere che il mio approccio nei confronti del traduttore automatico sia in qualche modo pregiudiziale. Vorrei anzi approfondire il punto del machine learning, ovvero di come si insegna a una macchina a imparare sentendo parlare un linguaggio naturale. Insomma, come si insegna a una macchina a diventare più “umana” e ad attuare miglioramenti che le consentano di rendere strumentali le conoscenze che acquisisce.

La linguistica computazionale

Tutto nasce alla fine degli anni ’50 con la linguistica computazionale.

I linguisti computazionali, semplicemente, come tutti i linguisti studiano grandi corpora di dati e da essi traggono delle conclusioni scientifiche sulla lingua che parliamo.

Studiare un corpus richiede un grande ammontare di tempo, richiede personale qualificato per “spulciare” il materiale che serve, per capire ad esempio quando un’occorrenza verbale sia rilevante oppure no. Ad esempio, quanti italiani dicono “a me mi” nel loro linguaggio scritto quotidiano? Il gruppo di persone che sfogliano il corpus è sostituito in quasi ogni tipo di  linguistica oggi da una macchina, che sulla base di semplici istruzioni sintattiche e morfologiche, trova i dati grezzi, che vengono poi interpretati dai linguisti.

La linguistica computazionale va oltre.

Riconoscere la lingua parlata

La linguistica computazionale, attraverso il “tagging”, ovvero l’etichettatura computerizzata delle parti del discorso e della fonematica di un linguaggio naturale, porta ad esempio alle App di riconoscimento della lingua parlata.

Ormai il mio telefono interagisce con me e ascolta le ricerche che gli chiedo di fare come non avrei mai immaginato che si potesse fare.

Dagli anni ’50

Quello che secondo me questa esperienza insegna in modo molto icastico è come la tecnologia e l’interesse del mercato portino un campo della ricerca a impennare vertiginosamente verso realizzazioni pratiche impressionanti. Tornando ai traduttori automatici, vorrei fare una seconda considerazione: l’annullamento della barriera linguistica dato dalla diffusione delle “lingue franche” per i mercati (inglese per l’Europa e le Americhe, cinese e arabo che si spartiscono l’Asia), porta da un altro lato a un rispetto della differenziazione che i traduttori automatici consentono: non ti parlo in esperanto se DeepL mi traduce dal polacco all’italiano in pochi secondi. Così i polacchi continueranno a parlare il polacco, gli italiani l’italiano.

L’utilizzo del traduttore automatico è una frontiera.

Una frontiera tra l’esattezza lessicale che viene richiesta dal buon traduttore nelle scuole di linguistica odierne, e dall’altro lato la necessaria contestualizzazione del materiale tradotto.

Traduttore automatico

E’ evidente che tra le due sia più difficile raggiungere la seconda, per un traduttore automatico. Per quanto riguarda la prima, le regole grammaticali impostate dai programmatori come ferree consentiranno un minore margine di errore. Va detto che la varietà che la mente di un traduttore consente, e tutte le sfumature di un termine, di un’immagine, forse non saranno immagazzinate in quella macchina specifica. Però vorrei dire che quando lessi alcune poesie di Baudelaire, masticando un po’ meglio il francese di quanto io faccia ora, mi trovai in disaccordo con alcune delle traduzioni proposte.

Traditore

Il traduttore traditore è una figura che di per sé ricompare in alcuni ambienti nella storia della letteratura. Tradire è già passare da una lingua a un’altra, perché il retaggio culturale e regionale che un autore imprime al proprio testo sono variabili. Variabile è anche e già la percezione che un lettore se ne fa, a seconda della propria percezione linguistica.

Certo, non vogliamo sfociare nel relativismo più scevro, ma per capirci, qualche problema con la traduzione c’è sempre stato, ed è sempre stato percepito. Ma come si insegna, dunqeu, questo contesto alle macchine?

Il contesto spiegato alle macchine

Il contesto in cui calare un sintagma è inserito grazie a processi di machine learning nella cui complessità non saprei addentrarmi. Quel poco che mi pare di aver capito è che alla macchina viene insegnato “come imparare”. ovvero, le viene sottoposta una quantità di dati sempre variabili, e quello che dovrà apprendere sarà come scremare le casistiche.

Quello che fanno “manualmente” i linguisti che studiano un corpus, la macchina lo eseguirà grazie alla propria abilità di calcolo.

Nella prossima puntata vedremo meglio quest’ultimo punto.

 

Che ci sia un genuino desiderio d’inchiesta dietro chi utilizza il traduttore automatico, è fuor di dubbio.

Traduttore automatico e “Dire quasi la stessa cosa”

Il traduttore automatico sembra essere oggetto di sempre più attenzioni da parte degli internauti. E’ evidente che un Salinger non potrà essere affidato alle larghe maglie di Google Translate, come anche una nota medica. Comunque, l’importanza del documento che si desidera tradurre è direttamente proporzionale al desiderio d’inchiesta: cosa c’è scritto? Ma inversamente, ahimé, all’opportunità di utilizzare un traduttore automatico.

“Dire quasi la stessa cosa” è un saggio del 2003 di Umberto Eco. Iniziava appunto con una rassegna molto divertente di alcuni esperimenti falliti con i traduttori automatici all’epoca in circolazione. Mi rende un po’ perplesso pensare che 15 anni fa fosse già quasi un’era diversa, però dimostrerò come le cose non sono poi tanto cambiate.

DeepL

Ho sentito molto parlare di DeepL, il traduttore che dovrebbe fare da diretto concorrente a Google. La traduzione cerca di basarsi sui processi neurali che l’uomo compie per comprendere e articolare il linguaggio, con l’ambizione di universalizzare la semantica e le scienze cognitive umane. Questa è la traduzione di questo primo paragrafo, inserito in DeepL:

“I’ve heard a lot about DeepL, the translator who should be the direct competitor to Google. The translation tries to be based on the neural processes that man performs to understand and articulate language, with the ambition to universalize semantics and human cognitive sciences. This is the translation of this first paragraph, inserted in DeepL”.

L’inchiesta sul significato

Cosa ne penso? Trovo che sia una buona traduzione. Il senso tecnico del mio paragrafo, scritto in un italiano piuttosto ordinario, è stato rispettato. Per la nota di un medico forse può andar bene, anche se ho fatto altri esperimenti con la poesia, e non sono stato così fortunato.

Ma la mia curiosità, che risponde a un naturale bisogno umano, non si è fermata. Ho pensato a un poeta che rispetta la semantica della prosa, che rispetta la metrica. Ci ho messo anche un’apostrofe, e ecco qui la traduzione dell’ultimo paragrafo di “Pianto Antico” di Carducci:

“Thou art of my plant
Beaten and withered,
You of the useless life
Extreme unique flor,
Six in the cold land,
Thou art in the black land;
Nor the sun most rejoices thee
nor does it awaken your love”.

Devo dire che sono colpito.

Quanto di più temuto da un naturologo dell’epoca, la condanna di Plinio il Vecchio ha impressionato molti studenti.

La condanna dello scienziato

Così mi piaceva concepirlo in adolescenza, come un martire votato alla Verità al di sopra del reale pericolo che questa comportava. L’episodio del Vesuvio che esplode in fiamme e lapilli è indicativo di questa tendenza: la condanna è quella di non abbandonare i ranghi in ogni senso possibile.

Un incidente mortale

Va detto infatti che Plinio il Vecchio non solo volle, come racconta il nipote, arrivare il più vicino possibile al vulcano. Ma anche, e forse soprattutto, voleva mantenere i ranghi, essendo a capo della flotta stanziata al Capo Miseno. L’incidente mortale del quale fu vittima fu quindi anche la fine delle sue scoperte scientifiche, che per l’epoca furono assai promettenti. Ma anche, probabilmente, la fine delle prospettive per il nipote, che certo non sarà stato indifferente a fomentare la fama dello zio, anche per un possibile tornaconto personale.

Lo dico senza intenzioni negative o machiavelliche, semplicemente dopo la Storia romana di Mommsen non credo sia più possibile prescindere da queste interpretazioni res-publicane.

Condannato dalla fame per il sapere

Questo, del “condannato dalla fame per il sapere”, è il profilo che conosciamo di Plinio il Vecchio.

E’ anche piuttosto facile adattarsi a un modello senza conoscere, oltre alla lettera del nipote, altra fonte storica e letteraria. Certo, mi si potrà obiettare, non è facile cogliere un uomo in punto di morte mentre si arrampica sul Vesuvio. E d’accordo, già Plinio il Giovane è stato fortunato a scamparla, probabilmente. Tuttavia va ricollocato nella sua cornice: Plinio il Vecchio era certamente un appassionato di natura, ma anche un uomo del suo tempo.

Condannato dalla sua fame del sapere, sicuramente un ruolo l’avrà giocato anche la fame di gloria.

E possiamo dire che alla fine aveva ragione lui.

Una conquista per il maestro fiorentino, del quale ho già parlato in qualche occasione.

“Pontormo: Miraculous Encounters” apre domani, 8 settembre, alla Morgan Library di New York.

Pontorno alla Morgan Library

La pala d’altare, probabilmente la sua opera più iconica anche per la colorazione pastello così manierista, ritrae l’incontro tra la madre di Cristo e la sua parente, Elisabetta. Un momento di agnizione nei Vangeli, nel quale la cugina più anziana sente il bambino che porta in grembo sussultare. Per chi mal ricordasse la novella evangelica: qui san Giovanni Battista, portatore dell’atto iniziatico del battesimo, incontra il proprio cugino, anch’egli in gestazione. Se quando si incontreranno da adulti i due avranno occasione per riconoscere il rispettivo ruolo, ora c’è solo un vago sentore magico, una premessa per la storia che va a svolgersi di lì a una trentina d’anni: il Battista battezza con acqua, ma annuncia che arriverà uno a battezzare con lo Spirito Santo, e l’annunciazione corrisponde a perfetta chiusura del cerchio, nei Vangeli. Dopo di lui infatti il cugino più giovane arriva, e a lui spetterà più avanti l’incarcerazione e la decapitazione.

La rappresentazione dei fatti

Ma senza entrare troppo nei dettagli apotropaici di questa decapitazione preventiva dei discepoli, nel dipinto del Pontormo non appare una chiara allusione al miracolo. A voler ben vedere, appare solo una rappresentazione di un episodio che potrebbe benissimo essere una fotografia quotidiana, tanto è assente in esso la narrazione.

Mi viene in mente una comparazione con lo sposalizio della Vergine, nella doppia versione del Bramante e di Raffaello. La comparazione tra i due dipinti consente di mettere in luce la relazione tra costruzione poetica e narrazione del fatto: nel caso del Bramante, la prospettiva regna sovrana, e per un moderno quale lo spettatore è, è quasi impossibile distinguere la narrazione sotto tutti gli strati sovrastrutturali del dipinto. Serve un codice, vorrei dire, che noi possiamo anche non possedere.

Nel caso di Raffaello, benché non sia comunque esente dalla sua maniera graziosa e leggiadra, la narrazione è ben più evidente. E’ evidente che sia in atto uno sposalizio, che la sposa sia una Vergine, e il paesaggio diventa con la sua vividezza diminuita, rispetto al Bramante, un piacevole corollario alla vicenda.

Tornando al Pontormo

Tornando al Pontormo, io trovo difficile non essere spiazzato dai colori pastello. Sono davvero molto evidenti, e mi richiamano tutto un Rinascimento post-michelangiolesco che fatico a mettere in secondo piano rispetto al fatto narrato.

Il miracoloso incontro alla Morgan Library sarà forse mediato dall’esposizione a un pubblico ben più ampio, che forse non ha questa “limitante” infarinatura di storia d’arte, a rendere difficile il miracolo.

Parlavo con un amico che mi riferiva di come la transizione dell’economia cinese dal manifatturiero al tecnologico abbia influito sui prezzi e sul trasferimento della manodopera tessile o meccanica, prima cinese. Dove si sta attuando una specializzazione che porta dal tessile e meccanico manifatturiero è naturale che il costo della manodopera si modifichi, tendendo ad innalzarsi. Dove prima si trovava sulla maggior parte delle etichette dei banchi cinesi al mercato “made in China”, aspettiamoci di trovare sempre più “made in Bangladesh” e “made in India”, questa la tesi del mio conoscente, che si occupa di export managing per una nota multinazionale tessile.

Se il lavoro piccolo costa di più

Da quel che ricordo dagli studi di economica, una delle poche sicurezze che si hanno nell’imprenditoria a ogni latitudine è che la manodopera sarà sempre tagliabile.

Una voce che dipende da molti fattori, tra i quali campeggia la tutela di tipo politico che uno Stato può esercitare , a vari livelli, sulla manodopera stessa. Se stabilisco con norme o con leggi del lavoro che una retribuzione non può scendere oltre una certa soglia, oppure che il lavoro dipendente è tassato in una certa maniera, sarà difficile aggirare queste misure, qualora siano troppo restrittive, per una multinazionale che vuole agire in regola. Quindi, necessariamente le misure devono assecondare le esigenze di detta azienda, e adeguarsi al mercato.

Domanda, offerta, manodopera

E’ curioso notare come non sempre la legge della domanda e dell’offerta non si adatti alla gestione economica della manodopera. Certo, è chiaro che non è una legge scientifica, e non sempre si applica, ma consideriamo in un certo senso la manodopera come un bene calmierato. Su quello, non è possibile applicare la legge della domanda e dell’offerta. Se ho possibilità eccedenti di forza lavoro, non per questo è detto che io offra paghe da fame. Il fatto in realtà accade, ed è sotto gli occhi di tutti, con la frammentazione dei contratti, la minore specializzazione della forza lavoro, e molti altri fattori che non è mia competenza elencare. Ma ecco, quello che mi preme notare, è che la dislocazione della manodopera ha anche un’altra faccia: l’approvvigionamento da diversa fonte delle materie prime. Il cobalto in Congo non costa poco solo perché il Congo ha grande offerta, ma anche perché lo stipendio medio del lavoratore congolese sarà tendenzialmente conveniente.

La manodopera che finisce

Vedo quest’epoca in una fase piuttosto tarda della vita, e mi sento di applicare con una certa saggezza quanto ho appreso finora: probabilmente non camperò abbastanza da vedere un cambiamento sociologico consistente, ma penso che succederà qualcosa che rivoluzionerà profondamente il nostro sistema produttivo. La manodopera è sempre meno richiesta, e sempre meno Stati la possono offrire a prezzi concorrenziali, e che consentono il sistema com’è adesso.

Quando più nessuno vorrà dedicarsi alla manifattura, ne vedremo delle belle. Ne vedrete.

A chi mi dirà che non è propriamente quello che si intende per “digitalizzare la cultura”, rispondo: non facciamone una questione terminologica. Il suffisso “-izzare” non è incoativo né frequentativo, come insegna la grammatica scolastica.

Rendere digitale

Questa nel titolo sarebbe, per chi la grammatica ha cessato di masticarla, la traduzione della chiosa del primo paragrafo. Cosa significa “digitalizzare”? Non si parla certo di incoativo, e cioé di “iniziare” una digitalizzazione, anche se in molti casi così è percepito il verbo, e così avviene.

Ma succede che in molte realtà, specialmente periferiche o a investimento pubblico non proprio intenso, in Italia, il verbo venga concepito in questo modo. Attenzione, è una conseguenza, non un “sema”.

Continuare su una strada

L’idea di “continuare su una strada” e cioè del verbo nel suo senso frequentativo, è pure una costruzione posteriore. Per gli avveniristi e chi propone un continuum con amministrazioni precedenti (sto parlando ad esempio del caso dei musei e delle istituzioni culturali), continuare è fondamentale.

Ancora, una costruzione logica posteriore.

Il wifi e il terzo significato

Il wi-fi quindi non rientra piuttosto appieno nel fraintendimento quasi suggerito del verbo “digitalizzare” in questo senso? Da un lato, novità digitale. Dall’altro, percezione di un processo di tecnologizzazione, o meglio di connessione, degli spazi pubblici e d’interesse culturale-artistico in Italia. Ebbene, sì, forse parlare di digitalizzazione è un’appropriazione indebita.

Ma questo è quanto accade per la Reggia. Il digitale sta prendendo piede, grazie al loro obiettivo tematico 6, che prevede di migliorare la fruibilità dello spazio pubblico. Questo non impatta se non in seconda battuta sulla fruizione culturale. Secondo obiettivo, e qui subentra il frequentativo, è creare una rete hardware più efficiente e una piattaforma open data. E qui subentra il terzo significato del verbo, che secondo me parlando di cultura e fruizione più affrontabile per tutti: intensivo.

Digitalizzare la cultura ha un senso intensivo.

 

Come avevo già visto nel museo Opera Duomo, la necessità di digitalizzare la cultura sembra una frontiera non solo trendy, ma anche necessaria per lo sviluppo bilaterale della fruizione d’arte.

La fruizione liquida

Bilaterale perché non richiede solo un necessario minor impegno, ovvero imbonimento, dell’utenza, ma anche un perfezionamento poetico ed estetico dell’opera d’arte in sé, che spesso come entità diviene fluida per essere recepita in modo attuale.

La digitalizzazione della cultura reca innumerevoli problematiche, sulle quali mi sono soffermato: la difficoltà nell’attribuzione della proprietà intellettuale è una di queste, che porta con sé la necessità o meno di retribuzione, mettendo quindi in discussione l’esistenza stessa della figura di artista.

Ma veniamo al Palazzo Reale

E’ stato presentato a fine giugno dal Presidente dell’Ars Gianfranco Miccichè nell’ambito del convegno internazionale “Il palazzo disvelato” dedicato alla reggia palermitana e agli altri luoghi del potere mediterraneo (26-29 giugno – Sala Mattarella dell’Assemblea regionale). IL Palazzo rappresenta una straordinaria sintesi di culture, quella araba come quella greco-bizantina e normanna. Un caso di sovrapposizione al quale siamo abituati in questa Regione crocevia di culture, spugna culturale e architettonica, spersa in un mare che in qualsiasi epoca storica lo si analizza appare come sovraffollato.

IL progetto vede grandi nomi della tutela del patrimonio storico e architettonico dei palazzi del potere, che si collocano, come riporta un articolo Ansa, da Istanbul al Cairo.

Palermo prende posto in questa disamina.

Da chi nasce

Nato da Ars, un gruppo interdisciplinare dell’Università della Tuscia e la Tecno-Art aggiudicataria del bando per un costo di circa 500 mila euro, il progetto ha avuto inizio nel 2010, ed è stato coordinato da Ruggero Longo.

“Dopo 8 anni, lo studio giunge oggi a compimento con la realizzazione di una piattaforma digitale virtuale innovativa, che interagisce con innumerevoli banche dati creando uno straordinario archivio multimediale che consente l’accesso a un grandissimo numero di informazioni”.

 

”La cultura del vino vale quanto il Colosseo, perché risale alle radici della nostra storia ed è oggi, come sarà nel futuro, una grande attrazione di conoscenze”. Così riportano i cronisti il discorso del Capo dello Stato alla Fis (Fondazione Italiana Sommelier).

Parliamo di vino

Devo dire che trovo apprezzabile la cultura dell’affinazione di palato che abbiamo in Italia e in Francia, in merito a vino e oli, principalmente. Il vino difeso dalla Fondazione Italiana Sommelier è certo un vino diverso da quello del produttore franciacortino, ma vorrei focalizzarmi più su queste due notizie lette su Ansa, che sulla caratura culturale endogena  del vino.

Il Valore del Tempo

Non farò però l’ingenuità di prescindere dalla retorica che aleggia intorno al vino stesso. “Il valore del tempo” è proprio il titolo di questo undicesimo Forum Internazionale della cultura del vino.

Non serve certo questo singolo episodio a certificazione di una tendenza alla valorizzazione, che è di brand piuttosto che di “cultura”, e giustamente. Queste le parole del presidente Fis:

”In oltre 30 anni di attività abbiamo lavorato perché l’Italia si emancipasse alla conoscenza di un prodotto che genera una esperienza culturale di conoscenza alla biodiversità italiana. L’insieme dei vitigni del mondo infatti rappresenta solo una piccola parte rispetto alle varietà di uve presenti dal Piemonte alla Sicilia. La conoscenza territoriale di questo prodotto, a volte demonizzato, ci deve rendere consapevoli, anche nelle aule scolastiche, di un patrimonio unico che da’ futuro all’Italia” (fonte: Ansa).

Esenti da etichetta nutrizionale

Ma la seconda notizia che mi preme riportare riguarda la normativa europea, uno dei massimi baluardi (normativi, più che intrinsecamente culturali) di DOP, DOC e pregio vinicolo: la Commissione europea ha rigettato l’idea di apporre un’etichetta nutrizionale alle bevande alcoliche.

Benché ci si esima così dalla corretta informazione del consumatore, il che aprirebbe a mio parere un dibattito su come una cultura nuova si sovrapponga alla necessaria valorizzazione di una pre-esistente.

Siamo a Milano in via delle Orsole, l’edificio è quello della Camera di Commercio Metropolitana di Milano-Monza-Brianza-Lodi.

Il bando lanciato per la sua ristrutturazione è stato vinto attraverso la piattaforma Concorrimi dell’Ordine degli Architetti di Milano, dallo studio romano Transit. Insieme a loro, le società di Milano WiP Architecture Technical Engineering, United Consulting e Msc Associati.

Il progetto

Si era parlato, nel bando originario, di ristrutturazione, mentre lo studio ha fatto una proposta di demolizione e ricostruzione.

Camera di commercio in via delle Orsole, com’è ora

E’ quest’ultimo aspetto che mi ha colpito, principalmente perché i suddetti architetti dicono in un’intervista al Sole 24Ore di volersi rifare ai grandi maestri del Novecento.

Un’epoca non lontana nel tempo quindi, ma che cambierebbe notevolmente il paesaggio nel quale la struttura si inserisce, oltre che la struttura stessa. “Abbiamo fortemente voluto e ricercato un progetto che fosse profondamente milanese, utilizzando un linguaggio architettonico che affondasse le sue radici nella tradizione moderna lombarda e in Milano in particolare; un filo che ci legasse alle poetiche di Terragni, di Giò Ponti, di Magiarotti e dei Bbpr” dice la relazione del progetto. Di Giò Ponti ci vedo molto Palazzo Montedoria, ma evito di fare gaffe cercando riferimenti i una materia che non mi compete.

Demolizione parziale

Sede di una banca fino al 1997, il palazzone verrà quindi demolito, eccezion fatta per la piccola parte di edificio confinante con la chiesa di Santa Maria della Porta. Si parla infatti di due fabbricati comunicanti.

Un anno dopo il decreto ministeriale che prevedeva la fusione delle tre camere di commercio (parliamo del dicembre 2016, mentre il bando è del dicembre 2017), il nuovo ente si dota di una facciata nuova.

Ho visto il render del progetto sull’articolo del Sole, e lo trovo un buon connubio. Un connubio innanzi tutto tra una vocazione più moderna e un richiamo alla vecchia struttura (i pieni e vuoti dell’ultimo piano, soprattutto). Ma anche, se vogliamo, un po’ di desiderio di magniloquenza, che non guasta mai.