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Mi sono poi scordato di aggiornare lo status del numero chiuso alle facoltà umanistiche alla Statale di Milano. Ne parlavo a settembre in questo intervento.

Vinto il ricorso al Tar, la facoltà ha deciso di non appellarsi al Consiglio di Stato sul numero chiuso.

Il numero dei partecipanti è stato così mantenuto aperto, come negli anni precedenti, per i corsi di laurea in Filosofia, Lettere, Scienze dei Beni culturali, lingue e letterature straniere, Storia, Scienze umane dell’ambiente, del territorio e del paesaggio. Esultanza dei collettivi universitari a parte, non sembra che in Senato Accademico fosse disposto a retrocedere, almeno a quanto si evince dai giornali.

Piuttosto, la necessità di garantire il regolare svolgimento delle lezioni ha avuto la meglio, la contingenza ha sopravanzato l’idea. Ma l’idea permane, solo penso avrà bisogno di un contraltare nazionale, per ora assente (il ministro Fedeli ha infatti mostrato assenso più verso la riapertura che altro).

Non sono incline all’appello accorato, ma riflettiamo quanto sia l’ammontare di capitale umano che si forma dietro quei portoni. Il numero chiuso renderebbe professionalizzanti dei corsi di studi che non sono nati per esserlo. Perché non mettere l’onesta premessa che “qui si studia per migliorare le proprie persone”? Capisco la frustrazione di non ottenere una adeguata remunerazione dopo anni di studio. Ma limitare il sapere? Se io volessi iscrivermi a Filosofia domani? Non ho necessità professionalizzanti, voglio solo avere i migliori insegnanti per veicolarmi la scuola di Francoforte, l’idealismo, voglio magari dare una veste strutturata all’ultimo libro che ho letto.

E’ una parzialissima analisi, come la precedente. Ma non può che suonarmi sospetta questa chiusura di numero, sospetta per il decremento della qualità globale dell’istituto universitario della prestigiosa Statale di Milano.

Fu prima di diventare uno dei tenori wagneriani più famosi di tutti i tempi, tanto da essere invitato a Bayreuth, che il giovane tenore Giuseppe Borgatti si ritrovò a cantare alla prima a LaScala dell’Andrea Chénier. Era il marzo 1896 e il verismo era tendenza che bel si accoppiava con le istanze sociali della giovane monarchia italica.

Umberto Giordano infatti ha impostato buona parte della sua carriera su questo filone, con Fedora, cantato alla prima nientemeno che da Enrico Caruso. Il Voto anche, e Marina, opera prima con la quale partecipò a un concorso operistico poi vinto da Cavalleria Rusticana.

L’Andrea Chénier

L’Andrea Chénier non è opera per chi ha gusti tradizionali. I vocalizzi sono molti, e soddisfacenti solo se avete la fortuna di trovare un inteprete che sa colorare senza risultare forzato. A mio personale parere, anche un inteprete che non vibra troppo nei momenti di virtuosismo.

Storicamente le rappresentazioni di questo spettacolo sono diminuite dopo i primi trent’anni di continue riproposizioni, ma la popolarità dell’opera mi sembra che sia rimasta notevole. LaScala ha scelto di aprirvi la nuova stagione operistica, con un tenore azero che non conosco, Yusif Eyvazov. La controparte femminile è l’istrionica Anna Netrebko, che si sta facendo un discreto nome nella scena italiana e internazionale.

Il libretto è di Luigi Illica e si ispira a André Chénier, poeta francese vissuto in età rivoluzionaria. I buoni sentimenti rivoluzionari sono indorati dall’aura di positività semplice che accomuna la gran parte delle coppie tenore/soprano protagoniste nelle opere tardo-ottocentesche.  Il baritono, che nel triangolo assume solitamente il ruolo di oppositore, qui è entrambi. Anch’egli è innamorato di Maddalena, la giovane nobile che viene però conquistata dall’idealismo rivoluzionario di Chénier. Sarà la sua nefasta intercessione a far condannare a morte il poeta dal tribunale di Robespierre (salvo poi pensirsene entro il terzo quadro).

Infine il verismo, come prevedibile, si annacqua, e i due amanti muoiono, mentre il baritono si dispera.

Una bella opera, che consiglio a chi ama il virtuosismo, e a chi digerisce questo genere di trama.

E’ stato in scena fino a ieri il Mercante di Venezia al Teatro Fontana di Milano.

La regia di Filippo Renda ha voluto restituire alla pièce l’attualizzazione della quale sembra non si possa fare a meno quando un autore supera la soglia del normalmente rappresentato e entra nell’Empireo dei Grandi.

Di  Shakespeare si conta anche una versione cinematografica dell’attore hollywoodiano Michael Fassbender, che ho visto e trovato sorprendentemente onesta nella filologia, e insieme carica di quella modernità testuale intrinseca che le opere del Bardo hanno. Forse, l’esperienza della commedia, forse il tono tragico sempre mediato da un realismo non timido e molto teatrale.

Fatto sta che la questione che ci si pone di fronte a un Mercante scanzonato, circondato da personaggi scanzonati, con i toni tra il grottesco e il superficiale del presente magnifico e dalle sorti progressive, è: ma perché Shakespeare? Il tema della giustizia sembra essere il rovello di quest’opera, che lascia sospesa la questione della “pound of flesh”.

Un piccolo suggerimento, per la prossima attualizzazione: nel Mercante originale, la questione è risolta.

Sempre più incuriosito dal fenomeno del free touring, di cui ho già parlato. 

Credo che prima o poi mi spaccerò per un turista statunitense e parteciperò a una di queste esperienze di economia “dal basso”.

Duomo, Piazza Mercanti, Castello Sforzesco, Teatro alla Scala, San Bernardino alle Ossa, Università Statale, Galleria Vittorio Emanuele II.

“…And much more” recita uno dei tour più convenzionali. Non so cosa proporrei se avessi ancora l’età per imbarcarmi da guida in questo genere di avventura.

Probabilmente una “Milano degli Sforza”, con approccio tematico a tutti i monumenti e ai luoghi simbolo di questa rinomata famiglia italiana. O magari un tour dei teatri, con le principali prime che hanno contribuito a renderli famosi. Con una necessaria parentesi storica sull’epoca nella quale ogni tetro è stato in auge, qualche curiosità morbosa sulla vita del castrato 500esco di turno… Reperire queste informazioni nella memoria è tanto più difficile, quanto è facile ricordarle quando le si sente come unica nozione relativa a una città.

Avrei sicuramente trasferito la saggistica sociologica che studiavo a considerazioni abitative, attuali. Le gentrificazioni, l’abusivismo edilizio, le vie “della moda”, “della finanza”… Se penso a quanti differenti percorsi tematici si possono affrontare in una città come Milano, quasi rimpiango di non essere nato in tempi più recenti.

Prima o poi partecipo.

E’ senza veli la Milano della fashion week terminata qualche giorno fa.

Non è stata solo una kermesse di alta moda: sono state aperte per l’occasione:

la storica Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale, che il Comune mette a disposizione anche per le sfilate dei designer emergenti, supportati dalla Camera della moda, e il Museo della scienza e della tecnica e la Triennale. Ed entrare nel Teatro Lirico, benché ancora in corso di ristrutturazione, per assistere al defilé di Antonio Marras.

(Fonte: Il Sole24Ore)

La Scala ospita domenica sera la prima edizione del Green Carpet Fashion Awards Italia.

Non solo moda, non solo manifattura, ma cultura del bello che dalla Fashion Week in sé si dipana a altri campi d’applicazione artistica.

La valorizzazione di questi due teatri, poi, nati come massima forma di aggregazione culturale nel tardo ‘700. I salotti milanesi si raccoglievano nei loro palchetti alla Scala per discettare di politica, ma più spesso per spiare il corsetto del vicino, per parlare di scandali, per scambiarsi impressioni sul pittore più in voga… A luci semi-accese, con il concerto che invadeva i silenzi (e non, come oggi, viceversa). Lì si consumava la vita mondana di Milano. Alla Scala il teatro grande, al Lirico, originariamente “la Canobbiana”, il teatro piccolo.

Dobbiamo figurarcela chiaramente, l’inestimabile promozione che questi influencer ospiti a Milano possono consentire. Un’immagine colta con Instagram regala una diffusione molto più capillare di quella che l’advertising di un museo o di un sito riesca volontariamente a fare.

Quindi, se la trasversalità di una manifestazione di moda la rende meno autoreferenziale, i milanesi non possono che gioirne.

 

 

 

E’ a Milano il bar ispirato a Wes Anderson. Il cineasta, che si sta facendo strada fuori dalla nicchia estetica, comincia a diventare fenomeno diffuso e a contare all’attivo molte pubblicazioni di spessore. Non lo conosco benissimo personalmente, ma vedendo alcuni frame e li trovo perfettamente sovrapponibili al bar Luce nella Fondazione Prada.

Quel che conta è l’advertisement, dicono i ristoratori e gli operatori della notte, quando parlano degli ultimi trend in fatto di locali. Qui siamo di fronte a una multinazionale della moda, una certezza di marchio. In questo caso subentra una forma di mecenatismo interessato da parte di Prada, che con Wes Anderson ha già collaborato. Si parla di un mini-film di collaborazione, Castello Cavalcanti.

Mecenatismo come forma di ritorno economico, quindi. Wes Anderson sponsorizzato.

Un format che trovo di grandissimo successo, del quale ho già parlato in altre occasioni. La mano privata non può che costituire un respiro di sollievo per le nostre opere dimenticate e in-valorizzate. Questo caso però è ancora differente.

Qui un regista contemporaneo e uno sponsor si fondono. Il turismo culturale sarebbe dell’appassionato di film di Anderson che va a cercarne l’atmosfera in un luogo reale.

Ricreare un luogo di fantasia cinematografica non è certo una novità. Molti bar “a tema” annacquano l’autorialità originaria in un alleggerimento gustabile come i pop-corn della multisala. Come nella multisala, un pacchetto artistico (cinema/visione) viene scomposto, e viene fruito anche da chi ama soltanto il gusto dei pop-corn. Del cappuccino, in questo caso.

 

 

Il palazzo dell’Anteo a Milano inaugura finalmente la sua veste di tempio del cinema. Con ben 11 sale cinematografiche, tra cui una con film on-demand, una per i film in lingua originale e una con annesso ristorante. Per aggregazione si aggiungono una nursery e un Caffé letterario.

Molt suggestiva la scelta di intitolare le sale a cinema storici della città come Excelsior, Astra, President, Rubino, Astoria, Obraz. Si parla di sale ora chiuse.

All’inaugurazione Cristiana Capotondi e Claudio Bisio, che ha definito coraggiosi i soci dell’Anteo. L’orario d’apertura è sicuramente coraggioso e competitivo, dalle 10 del mattino fino all’una di notte. All’interno sarà presente anche la Biblioteca dello Spettacolo, con libri, documenti, saggi e cataloghi.

Quello spirito imprenditoriale di cui ho già parlato investe anche uno dei rami dell’industria dello spettacolo rimasti più vivi. La settima arte si può dire sia rimasta infatti una forma d’intrattenimento piuttosto popolare, anche purtroppo nel senso deteriore. Ma stavolta sono speranzoso: la programmazione della  sala Obraz prevede ad esempio “Il diritto del più forte” di Fassbinder e “L’infernale Quinlan” di Orson Welles, con una superba Marlene Dietrich.

Trovo innovativa l’uscita dal formato proiezione-sala buia-attenzione sul film. Come nei teatri d’opera di un tempo, nella sala ristorante (gestita da Eataly) si può mangiare guardando il film. Wagner introdusse il buio in sala, e mi Hitchcock la chiusura delle porte a film iniziato.

Ma staticità non è sinonimo di tradizione.

La tradizione è ciò che viene “tràdito”, raccontato, e non vorrei sfociare nella banalità, ma trovo una boccata d’aria fresca questa sala ristorante. Altra suggestione che mi evoca, le gigantesche chiese protestanti anglicane con ristorante all’interno. Più che di tradizione gastronomica parlerei proprio di traslazione di un bisogno culturale: da oggetto di attenzione assoluta, a primaria gioia della fruizione, accompagnabile liberamente con un atto come il pasto?

Sono speculazioni, ovviamente. Complimenti al coraggio dei soci dell’Anteo, comunque.

Il numero chiuso è stato deciso a maggio dal Senato Accademico della Statale di Milano (come racconta il Corriere di Milano qui). Vale per i corsi di Lettere, Filosofia, Storia, Beni culturali e Geografia. La scelta era motivata da insufficienza di personale docente, inadeguatezza delle strutture, necessità di messa in sicurezza…

Erano tutte ragioni comprensibili, ma non sufficienti per i collettivi universitari, che hanno fatto ricorso al Tar.

Queste facoltà verrebbero infatti stravolte dal numero chiuso, non solo a livello logistico.

Il numero chiuso in ambito scientifico esiste oramai nella maggior parte delle università italiane. Se ne può ascrivere la nascita alla legge Zecchino 264/99. Erano momenti di assestamento sulla normativa europea in merito alle figure professionali di medici, dentisti e odontoiatri e si cercava con piccoli adeguamenti di mostrarsi rispettosi delle scadenze.

Quella che pareva una garanzia di qualità è in realtà un principio non condiviso da tutti: non posso non pensare ai Mooc (Massive Open Online Courses). I Mooc offrono scorci su argomenti disparati, da ingegneria, a neuroscienze, a letteratura e arti visive. Anche il MoMa di New York propone un bellissimo corso di fotografia. Si stanno diffondendo negli ultimi anni, e sono tenuti anche da università prestigiose, Yale, Stanford, il MIT…

Capisco anche le limitazioni fisiche. Il digitale supera brillantemente le difficoltà legate all’atto di uscire di casa, o al cambiare città o Paese. C’è poi il “free”, in contrasto col prezzo della retta universitaria o del singolo corso.

Ma a livello di reputazione, siamo realmente sicuri che la limitazione dei posti sia un guadagno? O meglio, lo è per le facoltà non-scientifiche? Trovo sterile la constatazione che il mercato del lavoro è tutto fuorché filo-umanista, e di conseguenza senza numero chiuso si potrebbe fomentare un’illusione occupazionale.

Non accampo ragioni biografiche, visto che appartengo a un altro periodo storico. Penso però che limitare l’accesso ai corsi “culturali” significhi limitare un accrescimento culturale potenzialmente massificato.

Non ci resta che aspettare e vedere come si esprimerà il Tar.

Un procedimento coerente e fondato su un vero lavoro scientifico, quello che sta portando a Milano la possibilità iniziative notevoli e stimolanti nel campo dell’arte.

La reputazione di Milano e della sua attività espositiva è molto alta e questo ci permette di sviluppare delle collaborazioni prestigiose. Ci tengo a sottolineare che non si tratta di mostre pacchetto ma di collaborazioni che partono dal lavoro scientifico

ha dichiarato l’assessore alla Cultura della Città di Milano Filippo Del Corno.

Confermata quindi una strategia che rappresenta la realtà di Milano, una città di grande importanza, non solo economica e finanziaria, ma anche culturale. Sappiamo che il nostro capoluogo si distingue a livello internazionale per le attività proposte durante tutto l’arco dell’anno: dalle mostre ai musei, passando per i festival le fiere e anche semplici tour per la città. Adoro vedere Milano viva ed energica, mi rende fiero sapere che un numero sempre maggiore di turisti vengono da ogni parte del mondo per visitare, quella che in fondo è casa mia.

Di qualche giorno fa la notizia della collaborazione tra il museo del Louvre e il Castello Sforzesco per la mostra “Anima e corpo. Movimenti del corpo e emozioni dell’anima nella scultura italiana dal 1460 al 1520“.  Il percorso vede l’esposizione di centotrenta opere provenienti dal Met di New York, da Vienna, Berlino, da Londra e dalla stessa collezione di arte antica del Castello Sforzesco.

Numeri notevoli e partner notevoli, che si susseguiranno anche per il cinquecentesimo anniversario della morte di Leonardo Da Vinci, quando sarà riaperta al pubblico la Sala delle Asse dopo il restauro della decorazione di Leonardo, e per la mostra “Vesperbild. All’origine della Pietà vaticana di Michelangelo” in programma nell’Autunno del prossimo anno.

Procedimento accurato che porta risultati significativi

La vivacità stimolata dall’attività culturale cittadina è percepibile per chiunque frequenti Milano anche solo per un giorno. Non per nulla il numero dei turisti richiamati dalle tante iniziative della capitale economica continua ad aumentare. Questo dovrebbe far riflettere su quanto investire sulla cultura porti ad un ritorno in termini di sviluppo reale delle attività turistiche, soprattutto se l’investimento poggia su una città reattiva, che cammina già sulle sue gambe.

Giudice severo che scatena emozioni da cui non possiamo fuggire: la poesia torna al centro della cultura milanese con un festival a lei dedicato. Una vetrina interessante, con un particolare sguardo di approfondimento sulla situazione donna oggi e sulla lingua italiana, la più bella del mondo.

Poesia, tema controverso e amore tormentato. La si ama o la si odia, non vi sono spazi nel mezzo. Sia che si parli della poesia con accezione più classica, sia che se ne parli in chiave moderna, questa elevata forma d’arte nasce per descrivere i sentimenti che ci coinvolgono e sconvolgono nel quotidiano. È un giudizio che ci lascia disarmarti, si dirige direttamente alle nostre emozioni, lasciando poco spazio alla logica e alla razionalità. Mi sono sempre stupito di quanta potenza abbia questa arte, di quanto possa far tremare le nostre certezze riuscendoci a leggere dentro. Bastano poche righe e tutto si compie.

Dando uno sguardo alla mia libreria un dolce ricordo mi sopraggiunge: nelle calde giornate primaverili ero solito prendermi qualche istante per me, in quei momenti di calma, di pace, adoravo sedermi nel parco e leggere. Ricordo con piacere Montale. Meraviglioso come ci si possa ritrovare a provare gli stessi sentimenti di uno sconosciuto, come tramite ad una lettura si venga catapultati in una sensibilità del tutto nuova.

La poesia da giudice dell’esistente a concreta opportunità

La poesia è sempre stata un giudice della realtà: quando impietosa ci mostra, senza appello alcuno, la deriva della nostra società, quando senza filtri ci rivela la disperazione che molto spesso siamo noi a creare. Opportunità e gemma di speranza quando la si sfrutta come punto di partenza, come base per non dimenticare.

Come meglio concludere questa breve dissertazione se non proprio con una poesia, una di quelle che lasciano il segno, una di quelle dalla quale non ci si può nascondere. Eugenio Montale:

Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale

e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.

Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.

Il mio dura tuttora, né più mi occorrono

le coincidenze, le prenotazioni,

le trappole, gli scorni di chi crede

che la realtà sia quella che si vede.

Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio

non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.

Con te le ho scese perché sapevo che di noi due

le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,

erano le tue.