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Ma ecco che dopo aver constatato che le lingue franche potrebbero venire meno in seguito all’utilizzo del traduttore, vorrei per amore del ragionamento per assurdo sostenere esattamente l’opposto, nella migliore tradizione sofista.

Le lingue finte saranno le più tradotte

Prendiamo un contesto aziendale. Una multinazionale, diciamo, italiana commercia con l’estrema Asia. La domanda è molto semplice: con a portata di mano un ottimo traduttore, è più probabile che la lingua nella quale si decida di comunicare sia l’inglese/cinese o, diciamo, il coreano tradotto?

Posto che né si parlerà, in ogni caso, l’inglese britannico, né il cinese mandarino. Anche perché quest’ultima è una lingua estremamente complessa, e nella comunicazione di concetti logistici non è certo richiesta tutta, e in tute le sue sfumature. Queste due lingue “franche”, però, sono molto più semplici nella resa, mettendo in un traduttore un testo complesso dalla propria lingua madre. Pensiamo a cosa succederebbe, se inserissimo nel traduttore automatico una frase in italiano ineccepibile, e a scatola chiusa ci affidassimo a una macchina per consegnare al cliente coreano un’altrettanto complessa e articolata mail in coreano.

A me, hic et nunc, sembra quantomeno assurdo pensare a un grado di affidabilità simile, da parte di un traduttore. Ma poi, mi sembra anche assurdo che mai si svilupperà una simbiosi simile con questi mezzi, che consentono sì la comunicazione migliore, ma mi sentirei di dire che lo fanno più sulla traduzione in entrata.

La fiducia nel mezzo

Quello che pensavo di sostenere nella terza parte di questa piccola riflessione è che scrivere solo nella propria lingua, aspettandosi che un altro faccia il lavoro di traduzione, è in realtà una forma di preservazione della purezza della madrelingua. Che sarebbe credo cara a molti poeti dell’antichità, non c’è dubbio. Ma poi, quanta parte del manager aziendale si fiderebbe? Quanto siamo ancora dipendenti dal concetto di lingua franca? Come possiamo credere che un abito a noi così attillato come la lingua possa adattarsi a algoritmi, e consegnare lo stesso abito ad altri?

Io credo che le lingue franche siano quelle che sopravviveranno a qualsiasi evoluzione tecnologica. E con questo ho concluso.

Che ci sia un genuino desiderio d’inchiesta dietro chi utilizza il traduttore automatico, è fuor di dubbio.

Traduttore automatico e “Dire quasi la stessa cosa”

Il traduttore automatico sembra essere oggetto di sempre più attenzioni da parte degli internauti. E’ evidente che un Salinger non potrà essere affidato alle larghe maglie di Google Translate, come anche una nota medica. Comunque, l’importanza del documento che si desidera tradurre è direttamente proporzionale al desiderio d’inchiesta: cosa c’è scritto? Ma inversamente, ahimé, all’opportunità di utilizzare un traduttore automatico.

“Dire quasi la stessa cosa” è un saggio del 2003 di Umberto Eco. Iniziava appunto con una rassegna molto divertente di alcuni esperimenti falliti con i traduttori automatici all’epoca in circolazione. Mi rende un po’ perplesso pensare che 15 anni fa fosse già quasi un’era diversa, però dimostrerò come le cose non sono poi tanto cambiate.

DeepL

Ho sentito molto parlare di DeepL, il traduttore che dovrebbe fare da diretto concorrente a Google. La traduzione cerca di basarsi sui processi neurali che l’uomo compie per comprendere e articolare il linguaggio, con l’ambizione di universalizzare la semantica e le scienze cognitive umane. Questa è la traduzione di questo primo paragrafo, inserito in DeepL:

“I’ve heard a lot about DeepL, the translator who should be the direct competitor to Google. The translation tries to be based on the neural processes that man performs to understand and articulate language, with the ambition to universalize semantics and human cognitive sciences. This is the translation of this first paragraph, inserted in DeepL”.

L’inchiesta sul significato

Cosa ne penso? Trovo che sia una buona traduzione. Il senso tecnico del mio paragrafo, scritto in un italiano piuttosto ordinario, è stato rispettato. Per la nota di un medico forse può andar bene, anche se ho fatto altri esperimenti con la poesia, e non sono stato così fortunato.

Ma la mia curiosità, che risponde a un naturale bisogno umano, non si è fermata. Ho pensato a un poeta che rispetta la semantica della prosa, che rispetta la metrica. Ci ho messo anche un’apostrofe, e ecco qui la traduzione dell’ultimo paragrafo di “Pianto Antico” di Carducci:

“Thou art of my plant
Beaten and withered,
You of the useless life
Extreme unique flor,
Six in the cold land,
Thou art in the black land;
Nor the sun most rejoices thee
nor does it awaken your love”.

Devo dire che sono colpito.

L’inchiesta è una forma di giornalismo investigativo rischiosa e complessa, la pazienza e la capacità di cogliere l’attimo è fondamentale, soprattutto per i fotografi che se ne occupano. Il ruolo dei fotografi nelle inchieste è fondamentale e il loro ruolo credo ci abbia affascinati tutti in passato, condensare la loro capacità artistica in un attimo, con attrezzature complesse come teleobiettivi e grandangolari su macchine di metallo, fantastico. Ora che noi tutti abbiamo la possibilità di scattare centinaia di foto senza alcun costo e girare video senza apparecchiature specializzate, si parla con maggiore insistenza di fotogiornalismo, di Citizen Journalism, di gente comune che si trova nelle condizioni di documentare un fatto.

Molte di queste fotografie ora sono vera e propria storia. Chi non si ricorda della famosa foto scattata da Will Counts che ritraeva una delle prime studentesse afroamericane che, nell’ingresso a scuola, dovette affrontare la discriminazione dei compagni? La durissima foto vincitrice del Pulizer con il bambino e l’avvoltoio di Kevin Carter, che denunciava la situazione di malnutrizione in Sudan? La cruda fotografia di Nik Ut che rappresenta l’uso di Nalpalm in Vietnam? Il dolce bacio di Eisenstaedt come segno della fine della seconda guerra mondiale? O ancora la rappresentazione della protesta in piazza Tienanamen di Widener? Foto piene di pathos ed emozione senza alcun dubbio, impresse nella mente di tutti.

La fotografia d’inchiesta è considerabile arte?

Credo sia lampante che la  maggior parte di queste foto siano entrate nella vita di tutti noi, anche se nati in epoche diverse, anche se si tratta di fotografie che per alcuni rappresentano un passato lontano. Questo tipo di fotografia, come l’arte suscita emozioni fortissime. Rappresentano gioia, disperazione, anche la morte. Come non farle entrare nel mondo artistico quindi? Personalmente non credo che la fotografia possa essere considerata solo un mero strumento. Foto come queste ne sono l’esempio. Superano barriere culturali, linguaggi, epoche, trasmettono emozioni, proprio come è scritto nel DNA dell’arte.