Abbiamo visto cos’è una pillola avvelenata, ma non abbiamo scandagliato bene tutti i suoi ambiti di utilizzo.

La natura della pillola avvelenata è tale che può essere adottata da una società, in quasi tutti i casi, senza il consenso degli azionisti. Il consiglio di amministrazione adotta semplicemente una delibera che approva il piano dei diritti degli azionisti e questi ultimi lo ricevono, senza necessariamente dover prendere parte al processo decisionale. 

Come si comporta una pillola avvelenata all’opera?

In definitiva, non è chiaro come si comporterebbe una pillola in caso di attivazione, poiché nessuna azienda ha mai attivato una pillola avvelenata. L’attivazione della poison pill provocherebbe talmente tanta incertezza e rischio per l’acquirente che quest’ultimo, in genere, preferisce negoziare con il consiglio di amministrazione o abbandonare la società piuttosto che affrontare il rischio di far scattare la clausola.

La vera funzione della pillola avvelenata

L’attivazione di una poison pill potrebbe danneggiare un’azienda diluendo il valore delle sue azioni. La domanda che ci si pone è: perché un’azienda dovrebbe intenzionalmente danneggiare se stessa?

La risposta è che la poison pill non ha lo scopo di danneggiare l’azienda, ma piuttosto di dissuadere qualsiasi potenziale acquirente dall’acquisire una quota troppo elevata dell’azienda senza il consenso della direzione. In apparenza, la pillola rappresenta una barriera nella proprietà che un acquirente non può superare. In questo modo, nessun acquirente potrà acquisire la piena proprietà di un’azienda senza prima rivolgersi al management (o, in alcuni casi, al tribunale) per negoziare una potenziale acquisizione. 

In poche parole: la pillola avvelenata allontana gli offerenti ostili.

L’acquirente davvero interessato, infatti, sarà costretto a collaborare con il management per cercare di far revocare il piano di diritti. Una volta al tavolo delle trattative, l’acquirente deve chiedere alla direzione di sponsorizzare una risoluzione che preveda il “riscatto” della pillola da parte degli azionisti e la rimozione da ogni azione. Se il consiglio di amministrazione è d’accordo e la pillola/piano dei diritti viene annullata, l’acquirente può procedere e completare la transazione. 

Tuttavia, se il consiglio di amministrazione non viene consultato o non gradisce i termini dell’offerta fatta dall’acquirente, la direzione può lasciare la pillola al suo posto e attendere semplicemente un’offerta migliore o un’altra soluzione.

La “pillola avvelenata” serve ad allontanare delle acquisizioni indesiderate d’azienda o a far lievitare il prezzo pagato da un acquirente che vuole imporre un’acquisizione ostile dell’azienda. La poison pill è un dispositivo meccanico progettato per funzionare in risposta all’acquisizione da parte del pretendente di un’ampia percentuale dell’impresa presa di mira. 

Come si costituisce la pillola al veleno

Una pillola di veleno assume la forma di un piano dei diritti degli azionisti. In sostanza, l’adozione di una poison pill è un’operazione che prevede l’assegnazione di un dividendo specifico a ciascuna azione in circolazione della società, consentendo agli azionisti di acquisire grandi quantità di azioni a fronte di un corrispettivo minimo o nullo in caso di un’offerta pubblica di acquisto ostile. La pillola funziona in modo tale che, se un offerente tenta di acquisire una determinata percentuale di proprietà dell’azienda, il piano viene attivato. In seguito all’attivazione della pillola, le azioni aggiuntive possono essere acquistate dai correnti azionisti a prezzi molto bassi. Il risultato è che il valore delle azioni acquistate dall’offerente entrante viene fortemente diluito, vanificando così l’offerta di acquisto.

 

ESEMPIO: Il management è molto preoccupato. Recentemente, nel settore in cui opera l’azienda, si sono verificate numerose attività ostili. Data la situazione, la direzione ha deciso di adottare un piano dei diritti degli azionisti in base al quale, se un offerente ostile acquisisce più del 15% delle azioni in circolazione dell’azienda, il piano scatta. L’attivazione (l’acquisto di più del 15% delle azioni in circolazione) dà diritto agli azionisti di pagare 1 dollaro per azione (invece dei 58 dollari a cui le azioni sono attualmente scambiate) ed è disponibile solo per gli azionisti che detenevano azioni prima dell’adozione del piano. In questo modo, la società ha creato una pillola al veleno che produrrebbe una massiccia diluizione del valore delle azioni in caso di tentativo di acquisizione ostile.

Sommerso, attività illegali e passibili di condanna… Tutto ciò fa parte dell’ampio contenitore che in economia chiamiamo “non osservato”. In sostanza, si parla di tutto ciò che sfugge alla rilevazione diretta, comprendendo quindi anche i contratti e le transazioni di denaro informali, che non vengono registrati in un sistema centralizzato. 

Per economia non osservata si intendono tutte quelle attività economiche che per diverse ragioni non risultano direttamente rilevabili. Le Nazioni unite hanno sistematizzato le categorie che possono rientrare all’interno di questa definizione. 

Si parla di attività non registrate, perché impossibili da tracciare da parte delle imprese stesse, oppure da chi si occupa di raccogliere le statistiche. Oppure si parla dell’economia sommersa, ovvero tutti quei traffici economici non dichiarati al Fisco, tra cui l’economia informale. 

Infine, abbiamo anche ovviamente i lavori e i traffici commerciali illegali, da sempre visibili al radar della statistica solo attraverso analisi di merci sequestrate, denunce di furto in qualche caso, o anche semplice visione attorno a sé di fenomeni che si conoscono benché non siano inquadrati da analisi specifiche.

Una zona grigia, insomma. 

Quando si calcola il PIL bisogna anche essere in grado di considerare l’economia non osservata.

Quel che è più interessante, soprattutto per i neofiti dell’economia, è che non si parla di ricchezza in quanto tale, ma piuttosto di valore aggiunto, ovvero la differenza tra il valore finale e quello dei beni necessari a produrlo.

In Europa

Dal 2014 tutti gli Stati Membri hanno dovuto inserire nel Pil anche le stime dei traffici derivanti da prostituzione, produzione e commercio di stupefacenti e contrabbando di sigarette. Anche gli affitti in nero e i falsi fatturati sono stati inseriti nel conteggio italiano.

Secondo l’ISTAT parliamo di 203 miliardi di euro di economia non osservata in Italia nel 2019.

Una cifra in costante calo, il che può significare sia la maggiore abilità di occultamento da parte di chi si occupa di economia non osservata, sia una inversione di tendenza.

 

Chissà!

Oggi l’analisi dei mercati si preannuncia più difficile del solito. I mercati sembrano in tumulto e le criptovalute stanno ancora soffrendo dopo il recente crollo.
Ma andiamo con ordine.

Come vedere il sell-off di ieri

C’è ancora spazio per scendere, sembrano dire alcuni analisti di rilievo, e mi sembra una considerazione sensata.

Il movimento dell’S&P 500 di lunedì ha spinto l’indice di riferimento al 20% dai suoi massimi precedenti.

Ma l’S&P 500 è pronto per un ulteriore ribasso dell’8% dopo aver subito un grosso crollo, complice la generale incapacità di superare alcune resistenze e la mancanza di segnali rialzisti da parte degli indicatori.

Tutto ciò avviene fondamentalmente perché molti investitori sentono, in lontananza ma ben distinto, l’odore della recessione.

Altri fattori da monitorare

Un altro motivo va sommato a questo quadretto: il rialzo dei tassi, sia da parte della BCE, sia da parte della Fed.

Secondo il principale stratega azionario statunitense di RBC Capital Markets, è assai probabile che avremo un rally di mercato “rapido e furioso”.

Gli investitori dovrebbero comprare dei titoli sottovalutati e ad alto rendimento – è facile rendersene conto consultando dividendi e rendimenti di cassa liberi, a fronte di valutazioni insolitamente basse.

Guerre, crisi, pandemie: siamo in un periodo non certo florido né per gli investitori, né per chi presta attenzione ai tassi d’interesse, né per moltissime altre categorie che – abbiate pazienza – non sto qui ad elencare.

È forse in questi momenti che anche i liberalisti più assidui e convinti cominciano a vacillare, e a invocare forse un briciolo di interventismo, onde sopperire alle mancanze che il libero mercato in tempo “normali” sembrava soddisfare così bene.

Classificazioni a parte, esistono in realtà da tempo diversi dibattiti sulla liceità o meno della regolamentazione del mercato in chiave politica, e soprattutto sulla sua gradazione.

Nel contesto del dibattito si colloca un pensiero a mio parere molto pionieristico, ma assai interessante: quello degli anarco-capitalisti.

Ma come, l’anarchia non era intrinsecamente anti-capitalista?

Apparentemente no.

Tutto può cominciare da un’osservazione più da vicino dall’Islanda medievale.

Perché l’Islanda medievale?

Secondo il teorico libertario David D. Friedman, “le istituzioni islandesi medievali hanno diverse caratteristiche peculiari e interessanti; potrebbero quasi essere state inventate da un economista pazzo per testare fino a che punto i sistemi di mercato possano soppiantare il governo nelle sue funzioni più fondamentali”. [Pur non definendolo direttamente anarco-capitalista, Friedman sostiene che il sistema giuridico del Commonwealth islandese si avvicina a un sistema giuridico anarco-capitalista del mondo reale.[157] Pur notando che esisteva un unico sistema giuridico, Friedman sostiene che l’applicazione della legge era interamente privata e altamente capitalista, fornendo alcune prove di come funzionerebbe una società di questo tipo. Friedman scrive inoltre che “anche quando il sistema legale islandese riconosceva un reato essenzialmente “pubblico”, lo trattava dando a qualche individuo (in alcuni casi scelto a sorte tra le persone colpite) il diritto di perseguire il caso e di riscuotere la conseguente multa, inserendolo così in un sistema essenzialmente privato”.

Piccole barchette di banconote: questa è la modalità che l’artista Carla Zaccagnini ha scelto per rappresentare il suo personalissimo concetto di inflazione.

A dispetto del nome, questa artista non è italiana, bensì di origine argentina, ma con una lunga permanenza in Brasile, e attualmente divisa tra Brasile e Svezia, dove insegna all’Accademia di Belle Arti.

Un incrocio di identità che qualcosa hanno in comune con l’inflazione: da un lato la Svezia, emblema di welfare e debiti in regola, dall’altro l’Argentina, Paese famigerato per aver dichiarato bancarotta per ben 9 volte. E infine, il Brasile, che cambia valuta in media ogni tre anni, il che secondo quanto detto dall’artista ai microfoni del The New Yorker dovrebbe rappresentare un’ulteriore spersonalizzazione del cittadino. 

In fondo, la valuta non è essa stessa simbolo di un Paese? 

Tralasciamo le considerazioni che si possono fare sulla “nostra” eurozona, dove l’immedesimazione con la nuova valuta forse non ha funzionato a dovere in tutte le fasce sociali. I sondaggi d’opinione del passaggio dalla lira all’euro ce li ricordiamo, come ci risuonano ancora nelle orecchie i proclami politici di chi avrebbe piuttosto rivoluto una valuta nazionale.

Non sempre le argomentazioni a suffragio di queste tesi erano convincenti, o quantomeno costruite. Spesso erano addirittura pressoché assenti, il che mi porta a ribadirlo: anche in questo caso, la valuta non era tanto una considerazione economica, quanto piuttosto un pungolo di nazionalismo, un rigetto dell’Altro, della centralizzazione da parte di un’autorità esterna. In poche parole, un particolarismo.

Ecco che quindi quest’opera che rappresenta l’inflazione in un maniera così visiva, con il non-simbolo, informalissimo origami della barchetta, è proprio questo: la messa in discussione del principio di nazionalità passa anche dalla celerità con cui una valuta nasce e muore, lasciando alle persone le energie prosciugate, e il desiderio di considerare la valuta non più rappresentativa del nazionalismo, ma pur sempre degna d’interesse, presente.

Che cos’è il teatro orgiastico se lo ricorda forse chi ha la mia età.

Erano i fervidi anni ‘70, quando la cultura teatrale sfociava dal suo avanguardismo ormai consolidato a forme di teatro spontanee, ma anche ritualistiche, spesso portate alla sperimentazione più estrema. Una di queste sperimentazioni più border line è quella messa in atto all’epoca – ma anche oggi – da Hermann Nitsch.

Chi era Hermann Nitsch

Venuto a mancare da poco, Nitsch fu pioniere dell’Azionismo viennese e popolò delle proprie performance controverse diversi teatri di tutta Europa, ma non solo. Concretamente si adoperò in diversi campi dell’arte, in linea con la sua idea di opera d’arte totale. Era infatti pittore, grafico, scenografo, scrittore e compositore.

Nelle sue performance sacrifici di animali, ferite, nudità, interiora lasciate all’aria aperta, contatti proibiti tra persone, oggetti e corpi. Quando nella Nascita della Tragedia di Nietzsche si legge la caratterizzazione dell’orgia bacchica, non si può che pensare a questa dimensione contemporanea che fu in grado di darle Nitsch con le sue performance. 

Non si contano le polemiche che il suo genere di spettacoli scatenava, all’epoca e anche oggi. Soprattutto in Italia.

Nonostante tutto, l’artista viennese aveva proprio privilegiato la nostra penisola per la propria arte, avendovi riscontrato un’apertura mentale ed artistica che nella sua Vienna non era stato in grado di percepire.

Esattamente negli stessi giorni, in Biennale dell’Arte a Venezia gli viene dedicata una mostra alle Officine 800 in Giudecca.

Teatro delle Orge e dei Misteri

Già l’accenno a Orge e Misteri dovrebbe farci suonare diversi campanelli di riferimento all’antichità classica. In sostanza, il teatro che Hermann Nitsch portava avanti (Orgien Mysterien Theater) ospitava performance di più giorni, sempre connotate da un’aura di grandiosità e di introspezione, a detta dei commentatori.

Il teatro era stato realizzato nel 1971 all’interno del castello di Prinzendorf in Bassa Austria, e l’ultima performance di più giorni era stata realizzata nel 1998. Proprio quest’anno si sarebbe dovuta riproporre una replica di quell’evento, durante l’estate.

Come vedere l’operato di Hermann Nitsch

Abbiamo un museo a Napoli, aperto nel 2008 dal gallerista Giuseppe Morra.

Invece la mostra in Biennale dell’Arte si intitola “20. malaktion” ed è gestita da Zuecca Projects.

La mostra raccoglie e ripropone la performance al Wiener Secession nel 1987 e consiste in 52 opere di painting action, tra cui il dipinto più grande che l’artista abbia mai realizzato durante la sua carriera – di 20 metri di lunghezza.

Sotto uno dei regimi più repressivi della storia brasiliana, lo Stato è stato coinvolto nella produzione, nella distribuzione e nell’esercizio cinematografico a tal punto che gli anni ’70 sono diventati l’epoca di maggior successo nella storia cinematografica del Paese.

Nel 1966 fu creato l’Istituto Nazionale del Cinema (INC) e nel 1967 furono introdotti sussidi alla produzione. Nel 1969 fu costituita un’altra agenzia statale, Embrafilme, inizialmente per promuovere i film brasiliani all’estero; nel 1975 aveva assorbito tutte le funzioni dell’INC e applicava una quota di schermi oltre a sovvenzionare la produzione locale.

Dal 1966 al 1971, la produzione annuale di film brasiliani è passata da 28 a 94, raggiungendo il picco di 102 nel 1980, il numero più alto di lungometraggi mai prodotti in Brasile in un solo anno, mentre la quota di schermi, aumentata provvisoriamente a 63 giorni all’anno per sala nel 1969, è stata fissata a 140 giorni all’anno nel 1980.

Purtroppo, queste statistiche non riflettono affatto la qualità. Sebbene registi come Glauber Rocha, Rui Guerra e Carlos Diegues, che erano stati di fatto costretti all’esilio durante gli anni più repressivi del 1971-72, siano tornati in patria durante gli anni del boom e del Cinema Novo e sebbene siano stati realizzati alcuni film di alta qualità, un nuovo genere, la porno chanchada, ha dominato sempre più l’industria cinematografica.

La commedia erotica

I prestiti a basso interesse contribuirono a rendere popolare questo nuovo tipo di commedia erotica: A Viúva Virgem (La vedova vergine, regia di Pedro Rovai), A Infidelidade ao Alcance de Todos (L’infedeltà alla portata di tutti, di Anibal Massaini Neto e Olivier Perroy) e Os Mansos (Mariti indulgenti, co-regia di Royai) ricevettero tutti prestiti nel 1972, generalmente considerato il primo anno della porno chanchada. In modo inquietante, nel 1981 oltre il 70% di tutta la produzione brasiliana di lungometraggi era pornografica – e meno “erotica” e “comica” di prima e più “hard-core” – e solo 1 di tutti gli 80 film realizzati non era né porno né prodotto da Embrafilme. Inoltre, 20 dei 30 film che hanno incassato di più nel 1988 erano “pornografici”, forse il nadir della produzione cinematografica commerciale brasiliana.

Certo, negli anni ’70 e nei primi anni ’80 sono stati realizzati molti buoni film, tra cui il fondamentale sguardo critico dell’argentino Hector Babenco sul mondo dei bambini di strada, Pixote (1980), l’adattamento erotico del ventitreenne Bruno Barreto di Dona Flor e Seus Dois Maridos (Dona Flor e i suoi due mariti, 1976) che ha battuto tutti i record di incassi brasiliani e ha fatto conoscere al mondo Sonia Braga, e tre importanti opere prime dirette da donne, Mar de Rosas (Mare di rose, 1977) di Ana Carolina, Gaijin (1980) del nippo-brasiliano Tizuka Yamasaki e A Hora da Estrela (L’ora della stella, 1985) di Suzana Amaral, studentessa della NYU.

Sempre alla fine degli anni Ottanta, il Brasile sperimenta la produzione creativa diffusa di cortometraggi e, con l’avvento di attrezzature video relativamente poco costose, vengono realizzati lavori significativi da parte di gruppi indigeni che, in precedenza, non avevano mai avuto accesso a nessun tipo di produzione cinematografica.

Fine degli anni ’80 e inizio del declino

Nel 1989, anno in cui il Paese ha vissuto l’elezione più democratica in oltre un secolo, la produzione cinematografica brasiliana è crollata a 25 lungometraggi e nell’aprile 1990, nello stesso giorno in cui il governo ha congelato una percentuale di tutti i conti bancari, il Ministero della Cultura è stato chiuso e Embrafilme è stata sciolta.

L’industria cinematografica brasiliana è praticamente crollata da un giorno all’altro.

Nel 1991 furono distribuiti solo 9 lungometraggi brasiliani e nel 1992 solo 6 film brasiliani uscirono nelle sale locali. Nel 1993, in mezzo alle continue crisi finanziarie e politiche, un nuovo Ministero della Cultura promise un sostegno di 25 milioni di dollari per il cinema brasiliano e l’anno successivo uscirono 10 film di produzione locale.

Nel 1998, la produzione di lungometraggi brasiliani era risalita a 40 titoli, O que e Isso Companheiro (Quattro giorni a settembre) di Bruno Barreto fu candidato all’Oscar statunitense come miglior film straniero e Central Station di Walter Salles vinse il premio più importante, l’Orso d’oro al Festival internazionale del cinema di Berlino.

Possiamo se vogliamo considerarlo la seconda tra le fasi del Cinema Novo Brasiliano, quella degli anni ’60.

Negli anni Sessanta, in seguito alla diminuzione delle opportunità di proiezione dei loro film, i rappresentanti del nuovo cinema brasiliano fondarono una propria società di distribuzione, la Difilm, insieme al produttore commerciale Luiz Carlos Barreto.

Cercarono anche di realizzare film più commerciali e, con Macunaima (regia di Joaquim Pedro de Andrade, 1969), il movimento ottenne il suo primo vero doppio successo: al botteghino e con la critica. Basato su un’importante “rapsodia modernista”/romanzo brasiliano dallo stesso titolo scritto da Mário de Andrade (nessuna parentela) nel 1926, Macunaíma, il film è anche l’opera chiave della terza e ultima fase “cannibal-tropicalista” del Cinema Nôvo.

Terza fase

Dopo il secondo colpo di Stato del 1968, il regime repressivo introdusse la censura, per cui i registi furono costretti a un approccio indiretto, ricorrendo all’ironia e all’allegoria. Il regista Joaquim Pedro de Andrade seguì queste tendenze, ma la sua strategia centrale fu la parodia. La tradizione dei B-movie brasiliani della commedia musicale, la chanchada, viene rievocata attraverso la caricatura e la riscoperta del grande comico Grande Otello che, sessantenne, interpreta il personaggio del titolo, Macunaíma, come un bambino.

Il film satireggia anche in modo comico l’illusoria armoniosa mescolanza razziale del Brasile e la sua “Alleanza per il Progresso” con gli Stati Uniti, e nella sua messa in scena sgargiante e carnevalesca, insieme ai suoi assurdi dialoghi pieni di proverbi, accompagnati da canzoni popolari inappropriate, Macunaíma fornisce un commento ricco e divertente sulla società brasiliana contemporanea.

Alla fine del film Macunaíma viene lasciato solo nella giungla amazzonica, dove gli unici colori sono quelli della bandiera brasiliana – giallo delle capanne di paglia e delle banane, verde della vegetazione e azzurro del cielo – e si butta in una piscina per inseguire l’inafferrabile dea Uiara.

Il sangue emerge dall’acqua fangosa (gialla) (blu), penetrando nella giacca completamente verde dell’eroe, che galleggia da sola sulla superficie dell’acqua, mentre un inno patriottico deride l’azione. In questa, ultima inquadratura del film, è chiaramente rappresentata la dichiarazione di Andrade sul suo film: “Macunaíma è la storia di un brasiliano divorato dal Brasile”.

Film simbolo della terza fase

Altri film chiave della terza fase sono Como era Gostoso o Meu Francês (Com’era gustoso il mio francesino, 1971) di Nelson Pereira dos Santos, che si presenta come un film finto-antropologico realizzato dalla prospettiva degli indigeni amerindi cannibali che incontrano i colonizzatori europei, e le opere estremamente allegoriche di Guerra, Os Deuses e os Mortos (Gli dei e i morti, 1970) e O Dragão da maldade contra o Santo Guerreiro di Rocha (tradotto letteralmente come “Il drago del male contro il santo guerriero”, ma con il titolo inglese “Antonio das Mortes”, 1969).

Lo stato d’animo deprimente del periodo fu catturato da un gruppo di giovani registi in fuga che realizzarono film udigrudi (underground) a bassissimo budget, deliberatamente “cattivi”, nichilisti e praticamente “anti-cinema”.

Per lo più in concomitanza con la terza fase del Cinema Nôvo, film come O Bandido da Luz Vermelha (Bandito a luci rosse, regia di Rogério Sganzerla, 1968), Matou a Família e Foi ao Cinema (Ucciso la famiglia e andato al cinema, regia di Júlio Bressane, 1969) e Bangue Bangue (Bang Bang, regia di Andrea Tonacci, 1971) suggerivano già solo con i loro titoli un controcinema aggressivo.

I nuovi valori dei cineasti Novi

I cineasti di quello che poi divenne noto come movimento Cinema Marginal rifiutarono quello che chiamavano il Cinema Nôvo Richo (Cinema Nouveau-riche) e sostennero la sostituzione dell'”estetica della fame” di Rocha con un’estetica del lixo (spazzatura).

All’epoca, questi film (per lo più anti-intellettuali) non erano graditi ai cineasti e ai critici del Cinema Nôvo (per lo più istruiti) e un altro regista, in definitiva più commerciale, fu associato all’udigrudi, anche se la sua carriera iniziò molto prima, José Mojica Marins.

Randal Johnson e Robert Stam, i due principali storici del cinema brasiliano in lingua inglese, dividono il Cinema Nôvo in tre fasi, la prima delle quali va “dal 1960 al 1964, data del primo colpo di stato; dal 1964 al 1968, data del secondo colpo di stato; e dal 1968 al 1972”. 

Fase 1

La prima fase è stata caratterizzata dall’opposizione al cinema commerciale in tutte le sue forme, dove il cinema era concepito come politico, e contro il neocolonialismo. In genere, i film della prima fase trattavano “i problemi del lumpen-proletariat urbano e rurale: la fame, la violenza, l’alienazione religiosa e lo sfruttamento economico”.

I film non rifuggivano dalla rappresentazione della dura realtà della vita, ma mantenevano comunque una certa visione ottimistica, forse come riflesso della giovinezza dei cineasti, prevalentemente giovani.

Uno di questi fu Glauber Rocha, che oggi è generalmente considerato il più grande di tutti i registi brasiliani. Il suo primo lungometraggio fu Barravento (Il vento che gira, 1962), storia di una comunità di pescatori bahiani (principalmente afro-brasiliani), che realizza una sintesi dialettica tra alienazione religiosa e progresso e tra metodi di pesca passati e presenti.

Nella sua strana combinazione di elementi realistici, tra cui le riprese sul posto e l’impiego di attori non professionisti, con montaggi eisensteiniani e movimenti di macchina deliranti, Barravento anticipa il secondo lungometraggio di Rocha, Deus e o Diabo na Terra do Sol (letteralmente “Dio e il Diavolo nella Terra del Sole”, ma con il titolo inglese “Black God, White Devil”, 1964), e segna l’originalità del suo lavoro per il nuovo cinema brasiliano.

Dio nero, diavolo bianco è ambientato nel sertão, la leggendaria, inospitale regione del nord-est brasiliano colpita dalla siccità, dove la pioggia arriva di solito solo sotto forma di alluvioni improvvise. Il film combina miti sincretici del nord-est con versi popolari, letteratura cordel e musica indigena brasiliana, sia classica che folkloristica, e stilisticamente mescola la messa in scena di tableaux e la recitazione melodrammatica, girata in tempi lunghi realistici con movimenti di macchina a scatti intervallati da jump-cut.

I personaggi principali sono contadini sertanejo itineranti che interagiscono con i ferventi seguaci religiosi (beatos) del mistico nero Sebastião e con vari banditi, per lo più buoni cangoceiros finiti male, che alla fine vengono risparmiati dal cattivissimo “assassino di cangoceiros”, Antonio das Mortes.

Altri film chiave della prima fase sono l’antimilitarista dialettico Os Fuzis (I fucili, 1964) di Ruy Guerra, che demistifica il misticismo e in cui i personaggi di un giovane soldato, Mário, e di un camionista, Gaúcho, Ganga Zumba (1963) di Carlos Diegues, sulla rivolta degli schiavi, e Vidas Secas (Vite aride, 1963) di dos Santos, un’esposizione definitiva e prevalentemente realista della lotta di una famiglia per vivere nel sertão.

(continua)