Mi ha divertito molto l’incipit sul Sole online di un articolo di Fubini sulla crescita prevista del pil italiano.

Da venerdì sera, con il giudizio favorevole di Standard & Poor’s, anche l’Italia è invitata al party. Per ora si aggira con un bicchiere di succo di frutta in mano e molta circospezione.

I gestori di fondi esposti sul debito pubblico italiano hanno dovuto prendere anche atto dell’annuncio che la Bce dimezzerà il ritmo degli acquisti di nuovi titoli di Stato.

Ma come la vede Fubini, è comunque un’Italia astemia quella che emerge. Ancora, la ripresa non è strutturale. Sebbene la nostra crescita per abitante dal 2015 abbia iniziato a superare la Francia (+0,8% cumulato di scarto nell’ultimo biennio) e nel 2015-2016 addirittura la Germania (+0,3%).

Sebbene

Il made in Italy ha venduto per 128,9 miliardi nel resto del mondo, il made in France per 124,8. Nei primi sei mesi il fatturato dell’export italiano è salito dell’8% sull’anno prima, quello tedesco del 6%, quello francese del 4% e questi ritmi resteranno per tutto il 2017.

L’importazione continua a essere più alta dell’export. Produttività e efficienza, se viste nel contesto Ocse, continuano a renderci poco competitivi.

Concepisco questa come la seconda parte dell’intervento che avevo già scritto, lo ammetto, sull’onda dell’entusiasmo generale.

Per quanto l’entusiasmo non faccia parte della mia sfera professionale, nè dei giudizi di S&P.

 

(Questa è la fonte dei brani che ho citato)

Alla Met Fifth Avenue omaggeranno il “Divine Draftsman and designer” Michelangelo Buonarroti.

Il Metropolitan Museum of Art dimostra, come necessario per un museo del suo calibro, un costante interesse per il Rinascimento italiano e in particolare per l’aspetto disegnativo di questo suo colossale esponente. Draftsman Michelangelo lo fu sicuramnte, prima ancora che cimentarsi nell’arte figurativa a tutto tondo rappresentata dalla pittura.

Sono annunciati per l’esposizione più di 130 disegni, tre sculture e il suo primo dipinto da aspirante artista, realizzato a quanto pare quando era appena dodicenne.

L’aspetto disegnativo di Michelangelo è in effetti iconico, non solo come storia dell’arte da qui al passato, ma anche nella percezione comune. Un tondo Doni e un Mosé, cosa possono avere in comune se non la fattezza, l’humanitas che anni di scuola dell’obbligo hanno contribuito a fissare nella nsotra memoria?

“Draft” è quindi diventato il tema dell’abilità creativa di questo artista. Una draft-star, direi!

Altro gran disegnatore italiano omaggiato nel 2003, sempre dal Met, è stato Leonardo. Chi se non lui aveva fatto del labor limae della matita un fattore altamente distintivo? Un altro autore italiano iconico, peraltro.

Ricordo il celebre cìparagone che sif aceva tra i due, raffrontando i cartoni della battaglia di Anghiari e di quella di Cascina. In quella michelangiolesca di Anghiari, i corpi contorti si avvinghiano con precisione anatomica e un moto costaante e circostanziato alla scena. Diversissima da quella Cascina col cranio dell’uomo dall’espressione disumana così evidente. A ricordarci in realtà la disumanità del realismo, stavolta non affibbiato a una classe sociale ma alla crudezza della guerra, come fatto interiore prima che come dinamica collettiva.

Fatti entrambi per essere esposti nelle sale di Palazzo Vecchio, i due cartoni non furono in realtà mai completati dagli artisti originari. Aristotile da Sangallo finisce Michelangelo, mentre Leonardo è consegnato all’umidità dell’ambiente e completamente perduto.

Sebbene la nota mensile sull’andamento dell’economia, prodotta dall’Istat, sia da prendere in un contesto e non come valore assoluto: mi sento quasi di tirare un sospiro di sollievo.

Non mi sono pronunciato finora troppo sulla “ripresa”, i cui effetti sono meno evidenti della crisi.

Riporto dei dati letti qualche giorno fa sul Sole 24ore:

La revisione dei Conti economici trimestrali, rileva l’Istat, ha evidenziato nel secondo trimestre un aumento congiunturale del Pil pari al +0,3%. La domanda nazionale al netto delle scorte ha contribuito per 0,3 punti percentuali alla crescita del Pil (+0,1 i consumi delle famiglie e +0,2 gli investimenti fissi lordi). L’apporto della variazione delle scorte è stato positivo per 0,4 punti percentuali, mentre è risultato negativo quello della domanda estera netta (-0,3 punti percentuali). Con un aumento congiunturale delle importazioni di beni e servizi (+1,2%) e una variazione nulla delle esportazioni. Dal lato della domanda, è proseguito l’aumento dei consumi finali nazionali. Seppure con una dinamica più lenta di quella registrata nel trimestre precedente (+0,2% la variazione congiunturale in volume, da +0,6%).

Ricordavo di averlo scritto in qualche forma, per quanto io non mi sbilanci a seguire questi megafoni che inneggiano alla ripresa, come non mi sono mai stracciato le vesti pontificando sulla crisi economica. Citavo Robert Coen e la necessità di investimenti infratrutturali. E l’export, e la competitività… Volendo essere iper-sintetico mi sono rifugiato magari nel mantra.

Vediamo se il sospiro di sollievo dura.

Nei telegiornali di questi giorni abbiamo occasione di intravedere alcuni scorci della Catalogna, e di Barcellona, che solitamente non trovano spazio sulle cronache internazionali.

La Pedrera, o casa Milà, è uno di questi.

Con i suoi piani ondulati, gli abbaini sul tetto, tortili, che comunicano comunque solidità. Un capolavoro del modernismo, ultima opera di Gaudì prima di abbandonare l’architettura civile e dedicarsi anima e corpo alla Sagrada Familia.

“La Pedrera” vista dalla strada, Barcellona

Si chiama Milà per il committente, l’imprenditore Pere Milà i Camps, insieme alla moglie Roser Segimon i Artells. Ne esce un’enorme casa di 9 piani di oltre 1300 metri quadri per piano. Gaudì iniziò a progettarla come un’unica curva costante, sia all’interno che all’interno, incorporando  geometrie più rigorose ed elementi naturalistici.

All’esterno il risultato è mozzafiato. Il piano terra originariamente doveva essere il garage, mentre il piano principale la residenza privata dei Milà e gli altri spazi sarebbero dovuti essere adibiti a oltre 20 case che i proprietari avrebbero affittato.

Poi, il tetto, incoronato da scalinate, ventole e abbaini che sembrano comignoli. E’ irrisorio il confine tra elemento architettonico e scultura decorativa, e a mio avviso curioso quando si parla di modernismo.

All’interno sono rimasto colpito dai soffitti, e dalle porte in legno intagliate a mano. Come per casa Battlò, l’architetto si occupa personalmente anche degli elementi di design, l’arredamento, le luci, il mobilio…

Molto divertente è l’aneddoto secondo il quale la signora Milà si lamentasse dell’onnipresenza del tocco dell’architetto, che aveva personalizzato al tal punto da non consentirle di aggiungere mobili, viste le pareti curve. Per questo motivo alla morte di Gaudì alcuni mobili vennero rimossi e l’aspetto originario della casa venne lievemente modificato.

Ciò non le impedisce di essere insignita come patrimonio mondiale dell’Umanità dall’UNESCO. Oggi è il quartier generale della fondazione Catalunya-La Pedrera, la quale gestisce le esibizioni, le attività e le visite turistiche.

La consiglio vivamente, magari in un momento di maggiore stabilità politica.

E’ senza veli la Milano della fashion week terminata qualche giorno fa.

Non è stata solo una kermesse di alta moda: sono state aperte per l’occasione:

la storica Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale, che il Comune mette a disposizione anche per le sfilate dei designer emergenti, supportati dalla Camera della moda, e il Museo della scienza e della tecnica e la Triennale. Ed entrare nel Teatro Lirico, benché ancora in corso di ristrutturazione, per assistere al defilé di Antonio Marras.

(Fonte: Il Sole24Ore)

La Scala ospita domenica sera la prima edizione del Green Carpet Fashion Awards Italia.

Non solo moda, non solo manifattura, ma cultura del bello che dalla Fashion Week in sé si dipana a altri campi d’applicazione artistica.

La valorizzazione di questi due teatri, poi, nati come massima forma di aggregazione culturale nel tardo ‘700. I salotti milanesi si raccoglievano nei loro palchetti alla Scala per discettare di politica, ma più spesso per spiare il corsetto del vicino, per parlare di scandali, per scambiarsi impressioni sul pittore più in voga… A luci semi-accese, con il concerto che invadeva i silenzi (e non, come oggi, viceversa). Lì si consumava la vita mondana di Milano. Alla Scala il teatro grande, al Lirico, originariamente “la Canobbiana”, il teatro piccolo.

Dobbiamo figurarcela chiaramente, l’inestimabile promozione che questi influencer ospiti a Milano possono consentire. Un’immagine colta con Instagram regala una diffusione molto più capillare di quella che l’advertising di un museo o di un sito riesca volontariamente a fare.

Quindi, se la trasversalità di una manifestazione di moda la rende meno autoreferenziale, i milanesi non possono che gioirne.

 

 

 

E’ a Milano il bar ispirato a Wes Anderson. Il cineasta, che si sta facendo strada fuori dalla nicchia estetica, comincia a diventare fenomeno diffuso e a contare all’attivo molte pubblicazioni di spessore. Non lo conosco benissimo personalmente, ma vedendo alcuni frame e li trovo perfettamente sovrapponibili al bar Luce nella Fondazione Prada.

Quel che conta è l’advertisement, dicono i ristoratori e gli operatori della notte, quando parlano degli ultimi trend in fatto di locali. Qui siamo di fronte a una multinazionale della moda, una certezza di marchio. In questo caso subentra una forma di mecenatismo interessato da parte di Prada, che con Wes Anderson ha già collaborato. Si parla di un mini-film di collaborazione, Castello Cavalcanti.

Mecenatismo come forma di ritorno economico, quindi. Wes Anderson sponsorizzato.

Un format che trovo di grandissimo successo, del quale ho già parlato in altre occasioni. La mano privata non può che costituire un respiro di sollievo per le nostre opere dimenticate e in-valorizzate. Questo caso però è ancora differente.

Qui un regista contemporaneo e uno sponsor si fondono. Il turismo culturale sarebbe dell’appassionato di film di Anderson che va a cercarne l’atmosfera in un luogo reale.

Ricreare un luogo di fantasia cinematografica non è certo una novità. Molti bar “a tema” annacquano l’autorialità originaria in un alleggerimento gustabile come i pop-corn della multisala. Come nella multisala, un pacchetto artistico (cinema/visione) viene scomposto, e viene fruito anche da chi ama soltanto il gusto dei pop-corn. Del cappuccino, in questo caso.

 

 

122mila presenze stimate per il Festival Letteratura di Mantova di quest’anno.

Una città che come spazi non brilla certo per la larghezza dei boulevards. Piazza Sordello ben si presta ai gazebo e alle folle oceaniche del Festival Letteratura, ma il resto delle vie del centro storico risulta intasato, e i ristoratori si fregano le mani ma sembrano accusare il ritmo frenetico.

Un investimento, questo festival che l’anno scorso ha compiuto vent’anni di vita, e che ha valso a Mantova il fregio di Capitale della Cultura 2015.

Non vorrei sbilanciarmi nella valutazione sugli autori coinvolti, ma la pretesa di una folla oceanica richiede necessariamente l’adeguamento del contenuto?

Leggo ora l’editoriale di Davide Longo sul Festival letteratura, il tono decisamente più da “festival” che da “letteratura”. Alle apologie del mostro sacro dello storytelling seguono commenti entusiastici sul “clima” e sulla “democrazia” del festival: al festival possono essere chiamati a partecipare autori alle prime armi come navigati poeti sconosciuti, come autori da ribalta.

Senza nulla togliere al raduno di massa, le critiche in merito sono doverose. Si continueranno a raccontare storie anche quando il digitale avrà definitivamente soppiantato il cartaceo, si continueranno ad ascoltare e vi si assisterà. L’eterno ritorno della narrazione, lo concepisco. Capisco anche la necessità di chiamare “storytelling” la tekne di raccontare con chiarezza, ordine e adeguata retorica ogni storia.

Ma così poco è l’antico, in questa sfilata letteraria. Così tanto spazio invece ha sapore di promozione. Come, ripeto, è giusto che sia per un festival. Ma uno spazio dedicato ai grandi che hanno reso grande l’Italia con le loro penne, non credo nuocerebbe alla partecipazione di massa. Approfittando proprio dell’investimento sul format ammiccante al pop fatto finora.

Non credo che spingere la Letteratura oltre il limite del contemporaneo costituisca una perdita.

In termini di pubblico. In ogni caso, un plauso a Mantova per l’iniziativa, e per la continuità e l’alto profilo logistico. Comunque, se lo meritano.

Il palazzo dell’Anteo a Milano inaugura finalmente la sua veste di tempio del cinema. Con ben 11 sale cinematografiche, tra cui una con film on-demand, una per i film in lingua originale e una con annesso ristorante. Per aggregazione si aggiungono una nursery e un Caffé letterario.

Molt suggestiva la scelta di intitolare le sale a cinema storici della città come Excelsior, Astra, President, Rubino, Astoria, Obraz. Si parla di sale ora chiuse.

All’inaugurazione Cristiana Capotondi e Claudio Bisio, che ha definito coraggiosi i soci dell’Anteo. L’orario d’apertura è sicuramente coraggioso e competitivo, dalle 10 del mattino fino all’una di notte. All’interno sarà presente anche la Biblioteca dello Spettacolo, con libri, documenti, saggi e cataloghi.

Quello spirito imprenditoriale di cui ho già parlato investe anche uno dei rami dell’industria dello spettacolo rimasti più vivi. La settima arte si può dire sia rimasta infatti una forma d’intrattenimento piuttosto popolare, anche purtroppo nel senso deteriore. Ma stavolta sono speranzoso: la programmazione della  sala Obraz prevede ad esempio “Il diritto del più forte” di Fassbinder e “L’infernale Quinlan” di Orson Welles, con una superba Marlene Dietrich.

Trovo innovativa l’uscita dal formato proiezione-sala buia-attenzione sul film. Come nei teatri d’opera di un tempo, nella sala ristorante (gestita da Eataly) si può mangiare guardando il film. Wagner introdusse il buio in sala, e mi Hitchcock la chiusura delle porte a film iniziato.

Ma staticità non è sinonimo di tradizione.

La tradizione è ciò che viene “tràdito”, raccontato, e non vorrei sfociare nella banalità, ma trovo una boccata d’aria fresca questa sala ristorante. Altra suggestione che mi evoca, le gigantesche chiese protestanti anglicane con ristorante all’interno. Più che di tradizione gastronomica parlerei proprio di traslazione di un bisogno culturale: da oggetto di attenzione assoluta, a primaria gioia della fruizione, accompagnabile liberamente con un atto come il pasto?

Sono speculazioni, ovviamente. Complimenti al coraggio dei soci dell’Anteo, comunque.

Penso che il concetto di free tour sia abbastanza indicativo dei grossi cambiamenti che sono intercorsi negli ultimi vent’anni nell’idea di promozione turistica.

Si moltiplicano online siti nei quali è possibile prenotare il cosiddetto “free tour” di una città. Solitamente, una grande capitale europea, una Londra o una Parigi, o una Berlino. La grandezza della città rende sensato quello che il Free Tour rappresenta.

Una visita inedita: il free tour solitamente esce dal convenzionale.

Mi è capitato qualche tempo fa di incappare a Londra in un gruppo di turisti attratti da una guida che pontificava sull’arte di strada. Il ragazzo, un giovane britannico spigliato, portava questa ventina di individui fuori da Marble Arch, dirigendosi in direzione opposta al centro.

Non ho seguito la comitiva ma ho poi approfondito. Coloro che conducono i free tour devono motivare i turisti raccolti a donare qualche soldo alla fine del tour, e per farlo lanciano la sfida sulla competitività più assoluta. Nei contenuti, intendo. Questo giro di street art è sicuramente qualcosa di impensabile per me, e nemmeno avrei saputo come prenotare. Ora vedo che esistono moltissimi siti dai quali è possibile prenotare comodamente una visita, da casa propria in fase di programmazione del viaggio, oppure a poco tempo di distanza dal tour, ovviamente nei limiti della disponibilità.

Trovo un segno dei tempi che questi giovani guide lavorino in assoluta assenza di qualsiasi garanzia di guadagno. Come gli artisti di strada, se vogliamo, ma in termini sociologici come gli agenti di vendita e gli artigiani: in comune con i primi, l’investimento nell’auto-promozione. Con i secondi, l’originalità del prodotto, che però in questo caso non ha nemmeno un prezzo fisso.

La net society rende indubbiamente più semplice questo scambio fluido di competenze. 

Ben venga per le città, nelle quali gli sguardi inediti si lasciano promuovere con l’incentivo di un guadagno. Per quanto incerto.

Il numero chiuso è stato deciso a maggio dal Senato Accademico della Statale di Milano (come racconta il Corriere di Milano qui). Vale per i corsi di Lettere, Filosofia, Storia, Beni culturali e Geografia. La scelta era motivata da insufficienza di personale docente, inadeguatezza delle strutture, necessità di messa in sicurezza…

Erano tutte ragioni comprensibili, ma non sufficienti per i collettivi universitari, che hanno fatto ricorso al Tar.

Queste facoltà verrebbero infatti stravolte dal numero chiuso, non solo a livello logistico.

Il numero chiuso in ambito scientifico esiste oramai nella maggior parte delle università italiane. Se ne può ascrivere la nascita alla legge Zecchino 264/99. Erano momenti di assestamento sulla normativa europea in merito alle figure professionali di medici, dentisti e odontoiatri e si cercava con piccoli adeguamenti di mostrarsi rispettosi delle scadenze.

Quella che pareva una garanzia di qualità è in realtà un principio non condiviso da tutti: non posso non pensare ai Mooc (Massive Open Online Courses). I Mooc offrono scorci su argomenti disparati, da ingegneria, a neuroscienze, a letteratura e arti visive. Anche il MoMa di New York propone un bellissimo corso di fotografia. Si stanno diffondendo negli ultimi anni, e sono tenuti anche da università prestigiose, Yale, Stanford, il MIT…

Capisco anche le limitazioni fisiche. Il digitale supera brillantemente le difficoltà legate all’atto di uscire di casa, o al cambiare città o Paese. C’è poi il “free”, in contrasto col prezzo della retta universitaria o del singolo corso.

Ma a livello di reputazione, siamo realmente sicuri che la limitazione dei posti sia un guadagno? O meglio, lo è per le facoltà non-scientifiche? Trovo sterile la constatazione che il mercato del lavoro è tutto fuorché filo-umanista, e di conseguenza senza numero chiuso si potrebbe fomentare un’illusione occupazionale.

Non accampo ragioni biografiche, visto che appartengo a un altro periodo storico. Penso però che limitare l’accesso ai corsi “culturali” significhi limitare un accrescimento culturale potenzialmente massificato.

Non ci resta che aspettare e vedere come si esprimerà il Tar.