A quasi un anno dall’inizio del lockdown, possiamo dire che l’ozono si è ridotto, la green economy funziona, l’aria è più pulita e i polpi son tornati alle nostre spiagge?

Aria più pulita?

Ora, non possiamo negare che la discesa di diversi animali selvatici nelle fontane e nelle aiuole delle nostre città sia avvenuta, e questo è sotto gli occhi di tutti.

Chi non ha visto le foto dei delfini al largo di Venezia, i cinghiali e i caprioli che entravano nei giardini privati, e non solo nei paesi pedemontani?

Però, purtroppo, per quanto riguarda la salute dell’aria non si distingue chiaramente un calo dello smog dal 2020 al 2019.

I valori 

Il traffico è sicuramente calato durante i due lockdown e si è ridotto l’inquinamento da ossidi di azoto dei motori a gasolio. Però, è cresciuto l’inquinamento da ozono troposferico, e sono anche cresciute le emissioni da collegare ai riscaldamenti domestici.

La Lombardia

Le notizie sono però buone per la Lombardia, dove secondo un’indagine basata sul bilancio 2020 di Arpa Lombardia, i livelli di biossido di azoto sono decisamente bassi rispetto all’anno precedente.

Invece i valori di pm10 superano nel 2020 i limiti sul numero massimo di giorni oltre la soglia di 50 microgrammi su metro cubo d’aria. Il benzene, monossido di carbonio e infine il biossido di zolfo rimangono sotto i limiti.

Ricorda: per poter capire questi dati serve avere un quadro generale, quindi la media annuale, ma serve anche considerare lo sforamento delle singole stazioni.
Alcune zone sono, come è evidente, più soggette di altre all’inquinamento, e alcuni tipi di inquinamento, come quelli della logistica, impattano in modo più deciso rispetto ad altri in alcuni contesti.

Poi, non dobbiamo dimenticarci il fattore meteo: basta una giornata di vento forte per eliminare la maggior parte delle polveri sottili e degli inquinanti, il che rende l’analisi della media utile ma non verità assoluta.
In un prossimo post vorrei parlare in breve delle altre regioni italiane.
Intanto, su la mascherina!

Abbiamo parlato nelle scorse puntate dell’uccisione rituale comune a molte culture dell’antichità, e alla vicenda di Diana dei Boschi e dei sacerdoti di Aricia che si uccidono a vicenda per prendere il ruolo di capi della comunità.

Ma da dove arriva questa barbara usanza, che sopravvisse fino all’età Imperiale?

L’origine

Si narra che il culto di Diana Nemi fosse stato istituito da Oreste il quale, dopo aver ucciso Toante, re del Chersoneso Taurico (la Crimea) si rifugiò in Italia con sua sorella, portando con sé il simulacro della Diana Taurica nascosto in una fascina di legno.

Quando Oreste morì, le sue ossa furono trasportate da Aricia a Roma e sepolte davanti al Tempio di Saturno, sul colle capitolino, accanto al Tempio della Concordia. Il cruento rituale che la leggenda attribuiva la Diana taurica è noto a chi conosce i classici: ogni straniero che approdava a quelle sponde veniva immolato sull’altare della dea.

Trasportato in Italia, il rito assunse una veste meno sanguinaria: nel santuario di Nemi cresceva infatti un albero di cui era proibito spezzare i rami.

Solo a uno schiavo fuggitivo era concesso di cogliere una delle sue Fronde, e se riusciva nell’impresa, questi aveva il diritto di battersi con il sacerdote. Se l’avesse ucciso, avrebbe potuto regnare in sua vece con il titolo di re del Bosco.

Stando a quanto dicono gli antichi proveniva da quell’albero la stessa fronda d’oro che Enea colse per ordine della Sibilla prima di entrare nel mondo dei morti.

Lo schiavo

Simbolicamente, la fuga dello schiavo rappresenta la fuga di Oreste, mentre il combattimento con i sacerdoti ricorda i sacrifici umani diretti alla Diana Taurica. Ricordiamo come Caligola, ritenendo che il sacerdote della Diana Taurica fosse rimasto troppo a lungo in carica, avesse assoldato un mercenario per ucciderlo; abbiamo poi la memoria di un viaggiatore dei tempi degli Antonini che riporta dell’esistenza ancora intatta del rituale dell’uccisione. 

Ma Diana Nemorensis non era l’unica divinità che si venerava in quei boschi…

(continua)

Sulla sponda settentrionale del Lago di Nemi, tra i Colli Albani e a sud di vasti boschi, sorge l’odierna città di Nemi. Anticamente invece della cittadina dimorava qui un santuario di Diana Nemorensis, la Diani dei boschi, circondato da un bosco sacro. Il Boschetto veniva chiamato a volte anche “Boschetto di Aricia”, anche se in realtà la cittadina di Ariccia si trova a 5 km di distanza, ai piedi del Monte Albano. 

Il bosco sacro

In quel Bosco sacro cresceva un albero intorno al quale durante durante i giorni e le notti era possibile vedere aggirarsi una figura truce. Aveva una spada sguainata nella mano destra e si guardava intorno con perenne sospetto.

Come se temesse che un aggressore sarebbe arrivato da un momento all’altro.

Questa figura era un sacerdote e un omicida. Sarebbe stato destinato a cadere prima o poi sotto i colpi del nemico ovvero il prossimo sacerdote. I nuovi candidati al sacerdozio tenevano l’incarico solo uccidendo il proprio predecessore, e occupandosi del sacerdozio finché non sarebbe arrivato qualcun altro a sostituirli.

Il bosco era abitato non solo dai sacerdoti ma anche dei pellegrini che venivano a visitare il luogo teatro di queste cruente uccisioni rituali.

Diana dei boschi

Questa usanza è stata documentata da diversi viaggiatori e ormai risulta assodata. Ma come è possibile che sopravvivesse anche in un’epoca in cui la civilizzazione latina raggiungeva dei picchi considerevoli per il mondo antico, ma soprattutto che sopravvivesse fino all’età Imperiale?

Oggi ci può sembrare davvero inspiegabile. Cerca di dare una risposta a questo quesito lo studioso britannico James George Frazer nel suo testo Il Ramo D’Oro.

Frazer studia la storia del culto della Diana Nemorense, una dea che grazie alle offerte votive ritrovate in loco è stata identificata come una portatrice di buona fortuna, ma anche facilitatrice dei parti, per le donne. 

Pare che il fuoco fosse l’elemento principale del suo rito, e sono state ritrovate diverse statue e bronzo della dea che ragiona torcia nella mano destra alzata. Se ci pensiamo, Vesta è la versione della dea Diana che sta sul focolare domestico, fondo come il tempio di Vesta nel foro romano.

Ma perché questi sacerdoti erano vincolati a trucidarsi a vicenda per tutta la vita? Nella prossima puntata vedremo le origini di questo rituale così macabro.

Come aveva puntualmente notato Carl Gustav Jung, nella storia umana esistono degli elementi ricorrenti.

Non parliamo solo di storia moderna ma anche di storia antica, ma soprattutto mitologia e raffigurazione religioso-folkloristica. Questi elementi ricorrenti esistono anche all’interno di ognuno di noi, sosteneva Jung, e si chiamano archetipi dell’inconscio collettivo.

Le uccisioni rituali

James George Frazer si occupa di un archetipo, benché non lo chiami con questo nome, ovvero quello dell’uccisione rituale. Un esempio sorprendente di una monarchia limitata da uccisione rituale ci viene dal potente regno medievale dei Khazari, nella Russia meridionale. Qui i sovrani venivano messi a morte allo scadere di un determinato periodo, oppure quando una calamità indicava il declino dei loro poteri.

I disastri, le inondazioni, le siccità e le carestie venivano infatti viste inconsciamente come malattie dello stesso sovrano. A noi classicisti questa considerazione richiama una memoria epica: la città di Tebe funestata dalle piaghe perché il suo sovrano si è comportato in maniera impura – anche se in realtà Edipo soddisfaceva il suo Fato, ma questo è un altro discorso.

Anche in alcune popolazioni dell’Africa, riporta Frazer, si svolgono rituali analoghi. Ad esempio l’usanza nel Bunyoro di scegliere ogni anno un sostituto del sovrano da un determinato clan che avrebbe impersonato il re, avrebbe abitato con le vedove nel suo tempio, e dopo una settimana sarebbe stato strangolato.

Sacee babilonesi

L’usanza è parallela alla festa babilonese delle Sacee, dove un sovrano fittizio veniva rivestito con abiti regali, frequentava le concubine del re, e dopo 5 giorni di regno veniva fustigato e messo a morte. 

Anche in altre tribù dell’Africa si è assistito alla messa a morte periodica dei re, in alcuni casi con una sorta di sfida pubblica da parte degli uomini più vigorosi, che avrebbero sfidato in un combattimento il sovrano stesso. 

Insomma, fare il re non era proprio una passeggiata, in diverse tribù dell’antichità!

Ma non pensiamo che sia un tribalismo da cui siamo esenti: accadeva una cosa simile anche nella Grecia antica.

(Continua)

James George Frazer  nacque a Glasgow nel 1854 da una famiglia scozzese del ceto alto.

Fin dall’adolescenza venne destinato alla professione di avvocato che mai però volle praticare.

Frazer, un avvocato mancato

Il suo interesse principale consisteva infatti nelle cosiddette culture primitive, come venivano indicate nei paesi di matrice anglosassone tutte le discipline antropologiche.

Perché stiamo parlando di Frazer?

Perché nel corso di quest’anno vorrei condividere con voi alcune riflessioni che ho fatto in seguito allo studio di questo ex professore di antropologia dell’università di Liverpool, che in realtà a mio parere fu anche artista e storico allo stesso tempo.

Opere

La sua produzione inizia con lo studio della cultura totemica in Australia e Nord America ma prosegue su filoni disparati.

Quello che più colpisce i neofiti della materia quale io sono è la tendenza di Frazer a collegare sempre con magistrale precisione la cultura antica con il folklorismo moderno. Se oggi può sembrare una tendenza comune, vi ricordo che siamo intrisi di Antropologia fin dalle scuole dell’obbligo, mentre all’epoca il sentire comune era diverso.

Vigeva infatti una ferrea distinzione tra ciò che era cultura classica (greca e latina, di solito), studiabile e culla della nostra stessa civiltà, e invece i popoli primitivi di cui sopra.

Il nuovo approccio di Frazer

Oggi l’approccio frazeriano viene studiato ma non è più quello dominante, nell’ottica dell’equiparazione di tutte e culture, anche  di quella cosiddetta occidentale o meglio Atlantica.

Tuttavia penso che l’approccio di Frazer serva soprattutto a chi con lettere o storia antica non ha molto a che fare.

Per un cultore amatoriale della materia, diciamo lo stesso culture che legge il Signore degli Anelli, studiare Frazer è l’apertura archetipica di diverse parentesi.

Ci dimentichiamo spesso che non siamo dei cultori di tutte le materie e che a volte anche una versione non proprio aggiornata a livello accademico può essere comunque molto più pregiata in quanto è di grande valore divulgativo.

Ci vediamo nella prossima puntata con le uccisioni rituali!

Come da piccoli si attende la fine dei sogni disturbanti, sento intorno a me molta attesa per questa fine dell’anno 2020 e inizio del nuovo anno.

Porterà con sé una ventata di cambiamento? Ci farà davvero fare il punto su quanto di prezioso l’introspezione, lo studio personale e la cultura ci riservano?

O piuttosto, sarà solo l’ennesima occasione per aumentare le disparità sociali e per dare uno scossone che renderà malferma l’economia nazionale?

Nel corso dell’anno ho toccato argomenti anche un po’ azzardati, come le bombe sull’Iran e il relativo danneggiamento di alcuni siti archeologici, ma anche ( più di recente) il grande mistero della Corea del Nord, stato a volte molto rumoroso, a volte decisamente silente. 

Un giallo del mondo della storia dell’arte ha poi assorbito tutte la mie energie: parlo del Klimt disperso, ritrovato a Piacenza dietro un muro.

Non poteva mancare un accenno all’impatto del Coronavirus, in particolare sulla Banca Centrale cinese e sul posticipo di diverse fiere ed esposizioni internazionali, seguito a distanza stretta da una piccola rassegna creata da me sull’impatto delle epidemie nella società umana. Il debito pubblico italiano non poteva mancare in questo contesto assai poco leggero e piuttosto analitico, ma capitemi, era un periodo un po’ insolito.

La riapertura dei musei è stata poi il grande trend da maggio in poi, anche se la gioia per la ritrovata cultura sarebbe durata assai poco. Comunque, ci sono state diverse parentesi positive, tra cui le visite ai musei nel 2019, non così poche come ci si sarebbe potuti aspettare. 

Alcuni eventi divertenti hanno scandito questi dossier, tra cui il divertente episodio della conferenza “I Borbone, processo a Isernia“.

Tra Dickens e l’ebook contro il libro cartaceo, l’anno si conclude in un attimo.

Confido che il prossimo sia meno burrascoso e foriero di interessanti novità.

Buone feste!

Paolo Giorgio Bassi

Come possiamo far quadrare la discussione sulle responsabilità politiche di un artista con l’idea che l’arte dovrebbe comportare una fuga dalla politica?

Questo “lathe biosas”, come lo chiamavano gli epicurei, è ben più vicino oggi al concetto, assai poco nobilitante, di zona di comfort (“comfort zone”).

Il pensiero può essere espresso in due modi diversi: il processo di creazione dell’arte potrebbe essere visto come uno spazio che deve essere separato dalla politica, o l’opera d’arte stessa potrebbe essere considerata come se parlasse un linguaggio diverso, o affrontasse argomenti diversi; in entrambi i casi avvicinare l’arte alla politica potrebbe sembrare minacciare qualcosa di fondamentale sulla pratica dell’arte.

Questa tesi non è la stessa dell’affermazione semplicistica (espressa al lancio e-flux di ‘For Machine Use Only’ a New York nel dicembre 2016) che ogni riferimento all’essere politica dell’arte è una scivolata verso lo stalinismo.

Ma implica un’insistenza sul fatto che l’arte dovrebbe, in qualche senso significativo, essere tenuta distinta dalla politica (almeno da alcune forme di politica).

Quella separazione tra arte e politica potrebbe essere un mezzo per far sì che l’arte veda alternative politiche o rappresenti l’ingiustizia, o potrebbe essere un fine politicamente importante in sé – un modo per allontanarsi dal vortice disordinato della politica e resistere ad esso e rifugiarsi nella propria zona di comfort; per creare uno spazio di libertà del tipo discusso da Hannah Arendt e Ariella Azoulay.

L’arte della crudeltà e la zona di comfort

Una variante di questa tesi è delineata da Maggie Nelson nel suo libro del 2011, The Art of Cruelty. Nelson attinge al principio di emancipazione di Jacques Ranciere: che “l’arte è emancipata ed emancipante … quando [essa] smette di volerci emancipare”. Da questo punto di vista, l’arte non dovrebbe esplicitamente prefiggersi di rappresentare l’ingiustizia, costruire comunità o seminare alternative politiche (anche se, probabilmente, questo non preclude agli osservatori di sottolineare che l’arte può avere queste conseguenze). Nelson sviluppa il punto con riferimento all’arte che rappresenta la crudeltà. Per lei, “quando le cose vanno bene con il fare e il vedere l’arte, l’arte non dice o insegna davvero nulla”. Resiste all’idea che l’arte possa dire “la verità” dei nostri tempi: “L’artista che sta coraggiosamente di fronte alla (scomoda, brutale, duramente conquistata, pericolosa, offensiva verità) … – cosa potrebbe essere più eroico? chiede Nelson.

Ma dovremmo essere più a nostro agio con l’idea che l’arte non può dirci “come stanno le cose”, ma invece può solo darci “le notizie irregolari, transitorie e talvolta indesiderate di come sia essere un altro essere umano”. I punti di Ranciere e Nelson ci allontanano un po’ dall’arte come fuga, o rifugio sicuro; ma sono collegati.

Suggeriscono che ciò che l’arte può fare è produrre intuizioni singolari sull’esperienza umana, e che dovremmo riconoscere che l’arte è al suo meglio quando cerca queste intuizioni, ed è cauta nel fare la grande teorizzazione generale che è abituale nella scrittura e nell’azione politica.

L’arte come rifugio

È importante che questa tesi sulla capacità dell’arte di essere un rifugio sicuro dalla politica non faccia l’assunzione ingenua che l’arte possa essere apolitica. La politica penetra nei nostri pori, e satura la società, ovunque ci troviamo (e anche quando miriamo a stare in disparte dalla società): attraverso la nostra educazione, attraverso gli spettacoli della pubblicità e dei media a cui è difficile sfuggire, attraverso i registri e la sostanza delle nostre interazioni quotidiane con gli altri, online e offline. Anche l’arte prodotta in uno spazio lontano dalla politica non può non essere influenzata da un qualche tipo di costume politico. Tuttavia, finché si resiste a questo impulso depoliticizzante, rimane possibile per l’arte aspirare a essere distinta dai vari sviluppi politici. Questa posizione è importante quando probabilmente il bisogno di un pensiero critico indipendente non è mai stato così grande.

Si vede che sono cresciuto negli anni ’70, vero?

Sono profondamente convinto, come ho già enunciato in precedenza parlando del rapporto tra arte e politica, che la prima abbia un ruol decisivo sullo svilupparsi e sull’interpretazione della seconda. Con i debiti distinguo e differenziazioni di contesto.

Arte che crea le correnti politiche

Oltre a documentare l’ingiustizia e a costruire comunità, l’arte può dirigersi verso nuove idee politiche, soluzioni e priorità.

Questa prospettiva, che l’arte può seminare alternative politiche, è stata espressa anche nel periodo precedente l’elezione di Trump e nel periodo successivo all’8 novembre.
Queste alternative politiche, abbozzate attraverso l’arte, possono essere più o meno formate. Mira Dayal offre una versione di questa tesi in un breve contributo a ‘The Air Sheets’, una pubblicazione di Sorry Archive, uscita nel dicembre 2016 “come risposta diretta all’inquietudine e all’apprensione del mese scorso”.

Scrive Dayal: “Dopo le elezioni, sono andato nel mio studio con l’intenzione di fare un lavoro che potesse trasmettere disgusto e nausea.” Il suo lavoro, che utilizza frutta in decomposizione e vaselina, e i suoi effetti, sembra richiedere una maggiore attenzione politica sull’affetto, l’emozione e il viscerale come sfida al liberalismo arido e sociopatico che ha a lungo dominato il pensiero politico della sinistra.

Questa nozione, a cui Dayal allude, che il pensiero politico dovrebbe essere radicato maggiormente nei sentimenti, è stata ripresa da attivisti e teorici all’indomani dell’elezione di Trump, che hanno chiesto una politica che abbracci la rabbia, l’empatia e l’amore.

Il Manifesto di Julian Rosefeldt

Un promemoria più didattico del potere dell’arte di contribuire a nuove visioni politiche si trova nel ‘Manifesto’ di Julian Rosefeldt, esposto a New York, Berlino e altrove nel corso del 2016.

Lo spettacolo presenta Cate Blanchett in diverse vesti e identità, tra cui un funerale e un’insegnante, che recita manifesti d’artista su 13 schermi diversi. Il turbinio di suoni, colori e parole che si sperimenta quando si guarda “Manifesto” è un’indicazione dell’energia intellettuale che l’arte può produrre.

E le parole articolate dalla Blanchett – dai futuristi, dai dadaisti e da altri – mostrano l’ambizione di tensione degli artisti nel passato, lasciando aperta la questione se gli artisti debbano reclamare tale ambizione nel nostro presente politico controverso.

Il conflitto con il Capitale

L’Hamburger Bahnhof’s ‘Capital: Debito, Territorio, Utopia’, esposta da luglio a novembre 2016, rappresenta un’altra iterazione del modo in cui l’arte può seminare alternative politiche. La vasta collezione di video, sculture, dipinti e altre forme richiama l’attenzione sulla centralità del debito nel nostro tempo. Una serie di teorici – dall’antropologo e attivista David Graeber, all’economista Adair Turner – hanno iniziato a concentrarsi sul debito privato negli ultimi anni, con l’emergere di prove dei legami tra alti livelli di debito privato e crisi finanziarie, e Mauricio Lazzarato nel suo libro Governed by Debt che pone le basi intellettuali per vedere “gli indebitati” come il nuovo proletariato.

La mostra dell’Hamburger Bahnhof indirizza una maggiore attenzione a questo problema dell’indebitamento. Sottolinea anche che il processo di creazione dell’arte e l’atto di espressione creativa – su argomenti come il debito – potrebbero essere essi stessi atti politici. Nelle parole di Joseph Beuys, riprese nella mostra, “il concetto di creatività è un concetto che riguarda la libertà e allo stesso tempo si riferisce alla capacità umana”.

Non solo poeti

C’è una certa somiglianza tra il posto degli artisti in questa impresa e il ruolo dei poeti nel dare voce agli sviluppi politici emergenti. Il poeta Don Share ha detto dopo le elezioni americane in un’intervista su The Atlantic che “una delle cose in cui la poesia è davvero brava è anticipare le cose che hanno bisogno di essere discusse”. Share ha osservato: “I poeti sono un po’ come … canarini in una miniera di carbone. Hanno un senso per le cose che sono nell’aria”. Lo stesso si potrebbe dire degli artisti – che sono canarini nella nostra miniera collettiva – con le opere del 2016 di Dayal e Rosefeldt, e la mostra Hamburger Bahnhof, dimostrando come gli artisti possano giocare questo ruolo d’avanguardia nel seminare alternative politiche, sia attraverso l’adozione di un nuovo approccio alla politica (basato sull’affetto), sia attraverso la definizione di manifesti, o evidenziando un particolare problema politico (come l’indebitamento).

L’arte può riunire le persone, intorno alle aperture delle gallerie, agli eventi e alle discussioni. C’è l’idea che le comunità create dall’arte possono avere un potenziale politico, e che di conseguenza artisti e curatori dovrebbero lavorare per creare e rafforzare le comunità artistiche.

Arte e comunità politica: un’introduzione

Le pubblicazioni d’arte e le gallerie hanno aperto le loro porte al pubblico all’indomani dell’elezione di Trump, allo stesso modo in cui le case editrici (come Verso Books) hanno mostrato una rinnovata energia e urgenza nell’organizzare eventi. Si potrebbero citare numerosi esempi, ma gli eventi e-flux a New York – compreso il doppio lancio di libri sulle macchine e sull’intersoggettività a dicembre – hanno comportato discussioni particolarmente esplicite sul valore della comunità artistica per i progetti politici.

Le università statunitensi

Anche i dipartimenti artistici delle università si sono mobilitati, e forse sono stati più disposti a parlare in termini esplicitamente ideologici: un caso interessante è il simposio di un giorno della New York University a dicembre su “Sense of Emergency: Politics, Aesthetics, and Trumpism’, organizzato da Andrew Weiner, che ha riunito attivisti, teorici dell’arte, artisti e altri.

Facciamo qualche distinguo

Sono necessarie alcune note su questo impulso verso la costruzione di comunità. C’è il rischio che la corsa alla costruzione di collettivi avvenga senza lo sviluppo di un quadro di riferimento per la comprensione di eventi o azioni, e senza una sufficiente riflessione critica su chi è incluso all’interno della ‘comunità’ e chi è escluso.

In un brillante saggio pubblicato su thetowner.com dopo l’elezione di Trump, Elvia Wilk invita coloro che lavorano nell’arte contemporanea – molti dei quali fanno parte della “famigerata classe culturale internazionale” – a porsi queste domande critiche. “Abbiamo bisogno di costruire e mantenere reti di sostegno”, scrive Wilk.

Tuttavia, continua, “se stiamo facendo riunioni su ciò che possiamo fare, dovremmo prima di tutto usarle per discutere su chi siamo.

Quali voci mancano nei nostri spazi? Più avanti nel saggio commenta l’esclusiva mancanza di radici di gran parte della comunità artistica: “Esistiamo in sacche di aree per lo più urbane, e queste sacche si collegano direttamente ad altre sacche tramite viaggi e wifi, con un insieme spesso uniforme di principi culturali e gerarchie che si estendono attraverso di esse”. Ritornerò su alcune di queste contraddizioni della comunità artistica più avanti, quando si discuterà della complicità dell’arte nell’oppressione.
Se queste conversazioni critiche vengono avviate nello stesso momento in cui si cerca di consolidare la comunità, sembrerebbe che incontri del tipo descritto possano essere interventi politici significativi, nel nostro mondo di capitalismo avanzato il cui obiettivo rimane – nelle parole di Guy Debord – “ristrutturare la società senza comunità”.

Per lo meno, se gli eventi e le discussioni possono essere organizzati in uno spirito di calore e di solidarietà, potremmo vedere il sorgere di quella comunità a cui Giorgio Agamben alludeva una volta in modo ellittico.

Continuo queste mie riflessioni sull’arte e l’attivismo considerando la prospettiva che da ragazzo mi ha fa fatto avvicinare all’arte: l’ingiustizia sociopolitica.

L’arte è in fondo la piena rappresentazione dell’ingiustizia politica, e diverse esperienze artistiche lo dimostrano.

La vita contemporanea rivisitata

L’arte può presentare caratteristiche della vita contemporanea in forma cruda, evidenziando ingiustizie o suggerendo tendenze o sviluppi che giustificano una resistenza. Non c’è bisogno di essere impegnati in una nozione superficiale di verità per capire l’intuizione del poeta dadaista Hugo Ball che afferma che: “Per noi, l’arte non è un fine in sé… ma è un’opportunità per la vera percezione e critica dei tempi in cui viviamo”.

Una forma di potere

Questa dimensione del potere dell’arte è stata dimostrata dalla nuova arte che ritrae il razzismo istituzionale e la supremazia bianca dell’Europa e dell’America contemporanea, e le risposte degli attivisti al razzismo istituzionale e alla supremazia bianca.

Alcuni esempi

Il ‘Cemetery of Uniforms and Liveries’ di Luke Willis Thompson alla Galerie Nagler Draxler di Berlino presenta, con potente concretezza, l’impatto dell’omicidio della polizia sulle famiglie. La mostra di Thompson consiste in due brevi filmati di familiari di inglesi neri uccisi dalla polizia. Vediamo i volti del nipote di Dorothy ‘Cherry’ Grace, Brandon, e del figlio di Joy Gardner, Graeme. Il filmato in bianco e nero da 16 mm costringe a fare i conti con la costante resilienza scritta sui volti di Brandon e Graeme. Costringe anche a prestare attenzione a dettagli che assumono un’importanza sproporzionata, data la nostra conoscenza di base: nel pulsare vigoroso di un collo, per esempio, vediamo una vita feroce e provocatoria di fronte alla violenza della polizia.

La Nomenclatura

La ‘Nomenclatura’ di Kameelah Janan Rasheed, rappresentata alla Forward Union Fair di New York nel dicembre 2016, coinvolge ventuno immagini di etichette tradizionalmente attaccate agli afroamericani: tra cui ‘American Negro’, ‘Free Africa’, ‘Person of Colour’ e ‘Black American’.

Le immagini, incorniciate in bianco e utilizzando lettere bianche su uno sfondo nero, evidenziano la mutevole e contestata auto-identificazione degli afroamericani o dei neri americani – e c’è una forza schietta in queste immagini, che allude al modo in cui tale nomenclatura è stata uno strumento di potere nella lotta contro la supremazia bianca.

Sia Thompson che Rasheed non si limitano a rivelare “fatti” preesistenti sul mondo. Forniscono nuove prospettive sugli attori delle lotte politiche – un modo diverso di vedere, per citare la frase di Berger. Queste installazioni ci ricordano che il commento di Luigi Ghirri sulla natura della fotografia – che è meno un mezzo per “offrire risposte” ed è “piuttosto un linguaggio per porre domande sul mondo” – si applica all’arte nel suo complesso.

Suggeriscono che una funzione dell’arte potrebbe essere quella di permetterci di vedere la nostra società più pienamente, possibilmente in un modo che spinga alla resistenza politica.