Una finanza alternativa fiorisce e prospera sempre all’arrivo di nuovi strumenti per l’erogazione del credito. È il caso dell’Equity e Lending crowdfunding, ovvero la ricerca di capitali o l’erogazione di crediti a privati e imprese con l’intermediazione di Internet.

I numeri del crowdinvesting

Ce lo racconta l’osservatorio Crowdfunding della School of Management del Polimi, che fotografa l’evolversi della situazione crowdinvesting dal 2016 a oggi:

  • 2016: 23 portali censiti da Consob (19 per l’equity e 4 per il lending), per un totale di 1,9 milioni erogati;
  • 2021: 79 portali, 953,4 milioni.

Parliamo comunque di finanziamenti legati all’andamento di una campagna, quindi un altro dato interessante che l’Osservatorio ci mostra è il successo del 76,3% delle 588 campagne lanciate su questi portali (al 2021).

Tra le piattaforme più attive abbiamo Mamacrowd, Fundera, CrowdFundMe, Walliance e Opstart. Però non va dimenticato che un posto di riguardo lo occupano le startup innovative, per cui il recente decreto rilancio ha stabilito  detrazioni fiscali per tutte le persone fisiche che scelgono di investire nel capitale di rischio di alcune startup innovative e PMI innovative.

L’attrattiva dei titoli italiani e stranieri

È importante, a questo punto, che le autorità italiane allineino con dei regolamenti la propria competitività con quella di altri Stati europei. Se ciò non viene fatto con le modalità e le tempistiche giuste, il rischio è che si verifichi un disallineamento tra portali italiani e competitor oltreconfine. Quindi, si parla di semplificazione delle procedure di autorizzazione, di adeguamento con la normativa europea, e infine di possibile dematerializzazione delle quote per attrarre nuovi capitali e investitori.

Il crowdinvesting è comunque un orizzonte interessante che vale la pena considerare per tutti coloro che si affacciano a strumenti di finanza alternativa con un impatto diretto sulle attività economiche emergenti.

Non è da me fare post così polemici, ma lasciatemi dire. Attorno a noi in questi giorni sono esplosi gli urli di tifo da stadio più belluini che io abbia mai sentito nella storia del calcio italiano.

Sebbene seguissi anch’io da ragazzo l’avventura di 11 uomini in pantaloncini di cui non specifico il colore di maglia, per non destare prese di posizione, è da tempo che non mi interesso più di calcio.

I motivi non ve li sto a elencare, ognuno ha i propri. Come me, molti altri individui all’affacciarsj dell’età adulta hanno calato l’attività della frequentazione dello stadio, o anche solo la menzione nelle conversazioni informali di fatti rilevanti inerenti al mondo sportivo.

Magari abbiamo iniziato a parlare più di Borse e di quotazioni dei giocatori, piuttosto che del batticuore suscitato dall’ultimo goal di Baggio.

Quindi, capisco l’intensità del tifo per gli Europei di calcio, come dicono in molti dettata in larga misura dalla fine della reclusione. Non credo che le persone per strada inneggianti all’Italia si fiondino per strada in auto a clacson spiegato per un motivo puramente liberatorio, ma lasciamo correre (fuor di metafora).

Però, dov’era questo entusiasmo per la riapertura dei teatri e delle attività culturali?

Perché non si riserva un sentimento di uguale trasporto anche alle vere nostre eccellenze, al nostro “dreamteam”, ovvero musei, cultura, letteratura e grande cinema?
Non pretendo che ci si appassioni all’opera, ma davvero l’unica cosa che fa scatenare questo volgo disperso è un pallone?
Certo, non è facile sentire fibrillazioni immediate con un film di Antonioni, e devo ammettere che i musei italiani in seguito alla riapertura, Uffizi di Firenze in primis ma non solo, hanno registrato dei boom di vendite.

Però vorrei rivolgere un appello a tutti coloro che hanno atteso questi Europei per sentire di nuovo il brivido dell’ evasione dalla realtà, il divertimento, la purezza della aggregazione:

Andatevi a godere le straordinarie bellezze della cultura attorno a voi!

Anche il teatro può creare aggregazione.
Forse la mia è una visione demodé, ma sono pur sempre figlio degli anni ‘70.
Lasciatevi consigliare da un “boomer”: andate più al museo, e meno allo stadio.

 

Leggere Don Chisciotte in spagnolo credo che sia un’esperienza che ancora mi è preclusa, anche se non escludo nei prossimi anni di imparare un po’ meglio questa versatile e affascinante lingua.

L’importante, quando si leggge Don Quixote, è non aspettarsi, chiaramente, lo spagnolo moderno.

Serve abituarsi allo stile, alle strutture delle frasi, ai giri di parole e al vocabolario sconosciuto. Per consenso comune il coronamento della letteratura spagnola, il Chisciotte è una lettura massiccia e impegnativa.

Ma il suo trattato sul potere della creatività e dell’individualismo ha ispirato l’arte, la letteratura, la cultura popolare e persino la rivoluzione politica. Don Chisciotte sostiene che la nostra immaginazione informa notevolmente le nostre azioni, rendendoci capaci di cambiare e, in effetti, rendendoci umani. Perché dovresti leggere “Cent’anni di solitudine”?

Così come Shakespeare non ha scritto in nessun genere, Don Chisciotte è sia tragedia che commedia.

Il nome. Il nome “La Mancha” deriva probabilmente dalla parola araba al-mansha, che significa “la terra secca” o “deserto”. La parola mancha in spagnolo significa letteralmente macchia, macchia o chiazza, ma non esiste alcun legame apparente tra questa parola e il nome della regione.

Don Chisciotte era pazzo?

Don Chisciotte, pensato dalla maggior parte dei personaggi del Don Chisciotte, è davvero pazzo, perché ha tutte le caratteristiche di un pazzo, come una serie di idee folli che lo fanno esporre sia se stesso che gli altri al pericolo. In realtà, Don Chisciotte non è mai troppo ostinato nel suo ottimismo di essere un cavaliere errante.

Molte sono le domande che sorgono in seguito o prima della lettura del Don Chisciotte di Miguel de Cervantes.

Ho fatto un piccolo esercizio retorico, cercando di raggrupparne diverse e di dare a tutte una risposta.

Iniziamo proprio a un livello pop e comprensibile a tutti, sia chi ha studiato il cavaliere di Ronzinante a scuola, sia di chi l’ha approfondito per proprio interesse personale o accademico.

Don Chisciotte è un idealista o un realista?

Su quasi tutte le scale che gli altri hanno applicato a lui, Chisciotte è un idealista. Chisciotte è stato un militare e ha visto cose terribili. Sa bene che il mondo è generalmente duro e spietato – una posizione fondamentalmente realista.

Perché Don Chisciotte attacca i mulini a vento?

Don Chisciotte combatte i mulini a vento perché crede che siano dei giganti feroci. Pensa che dopo averli sconfitti – tutti “trenta o quaranta”! — potrà raccogliere il bottino e la gloria come cavaliere. Tuttavia, quando carica i “giganti”, la sua lancia si impiglia in una vela.

C’è un elemento di ironia in Don Chisciotte?

Il risultato è un’ironia drammatica, poiché noi siamo consapevoli dello scherzo mentre Don Chisciotte stesso non lo è. Questa ironia ci trascina più a fondo nel romanzo, confondendo ulteriormente la linea tra follia e sanità mentale, verità e menzogna.

Cosa significa essere Don Chisciotte?

Don Chisciotte (sostantivo) l’eroe di un romanzo di Cervantes; cavalleresco ma poco pratico. Don Chisciotte (sostantivo) qualsiasi idealista poco pratico (come l’eroe di Cervantes)

Qual è la tua interpretazione di Don Chisciotte?

Don Chisciotte è un gentiluomo di mezza età della regione della Mancia, nella Spagna centrale. Ossessionato dagli ideali cavallereschi propagandati nei libri che ha letto, decide di impugnare la lancia e la spada per difendere gli indifesi e distruggere i malvagi.

Cosa significa combattere contro i mulini a vento?

Inclinarsi ai mulini a vento significa combattere nemici immaginari. L’idioma “tilting at windmills” si trova per la prima volta nella lingua inglese negli anni 1640 come “… fight with the windmills…”. Il verbo tilting fu presto sostituito dalla parola fight. Il termine è tratto dal classico romanzo spagnolo Don Chisciotte di Miguel de Cervantes.

Apre la mostra “Painting is back. Anni Ottanta, la pittura in Italia” alle Gallerie d’Italia, la galleria di Intesa san Paolo a Milano; una mostra che mette in scena alcuni momenti più rilevanti della pittura anni ’80 della nostra penisola.

Una Galleria d’Italia per i beffardi anni ’80

Erano beffardi, metà Manzoni e metà Fontana, ma spesso con l’ammiccante allusività di De Chirico. I pittori degli anni ’80 sono tra i più conosciuti anche da chi no segue l’arte contemporanea e ha soltanto un’infarinatura scolastica di quello che fu un movimento intrinsecamente rivoluzionario per la nostra storia dell’arte.

Lo stesso titolo “painting is back” voluto da Luca Massimo Barbero, Curatore Associato delle Collezioni di Arte Moderna e Contemporanea di Intesa Sanpaolo, è rivoluzionario. In un’epoca in cui la pesantezza pandemica ci ha costretti in casa e impauriti di fronte a un male gestionale e virale più grande di noi, è il momento di riscoprire la bellezza.

Ecco che quindi proprio questi pittori vengono rispolverati per consegnare uno sguardo eterogeneo e sfaccettato.

Il percorso espositivo alle Gallerie d’Italia

La mostra si aprirà con i protagonisti della Transavanguardia, il movimento di Achille Bonito Oliva nato e diffuso dalle pagine di Flash Art, come si conviene a ogni avanguardia dell’epoca. Abbiamo anche Sandro Chia, Mimmo Germanà ed Ernesto Tatafiore. Francesco Clemente, Nicola De Maria e la pittura murale, Aldo Spoldi, Enzo Cucchi e il suo iconico Le stimmate (1980).

SI anticipano anche opere di Mimmo Rotella, Valerio Adami o anche Emilio Tadini.

Ci saranno anche, come riportato dalla presentazione della mostra: Enrico Baj, a cui è dedicata un’intera sala, Mario Schifano, Salvo, Franco Angeli, Aldo Mondino.

Come si vede, un bel catalogo variegato per farsi un’idea chiara dei vari fili che venivano tratteggiati in questo panorama composito e fervente di nuove spinte avanguardistiche.

La mostra sarà aperta fino al 3 ottobre 2021.

Don Chisciotte è considerato dagli storici della letteratura uno dei libri più importanti di tutti i tempi, ed è spesso citato come il primo romanzo moderno. Il personaggio di Chisciotte divenne un archetipo, e la parola Chisciotte, usata per indicare il perseguimento impraticabile di obiettivi idealistici, entrò nell’uso comune.

Spesso mi sono chiesto quale sia il messaggio principale di Don Chisciotte. Scritto da Miguel de Cervantes Saavedra, Don Chisciotte è un romanzo che parla di un uomo e del suo ‘scudiero’ che cercano di dimostrare che la cavalleria non è morta e aspirano ad essere eroi. Ci sono temi di cavalleria, romanticismo e sanità mentale in questo romanzo in due parti.

Successivamente, la domanda è: Don Chisciotte è una storia vera? Don Chisciotte. La storia “vera”. Verdadera historia (“Storia vera”) è un’espressione che ricorre in numerose occasioni nel Don Chisciotte, per lo più riferita a Don Chisciotte stesso, anche se occasionalmente allude a individui storici (per esempio, Parte I, 32 la vera storia dello storico Gonzalo Hernández de Córdoba).

Oltre a questo, cosa ha fatto Don Chisciotte?

Don Chisciotte è un gentiluomo di mezza età della regione della Mancia, nella Spagna centrale. Ossessionato dagli ideali cavallereschi propagandati nei libri che ha letto, decide di impugnare la lancia e la spada per difendere gli indifesi e distruggere i malvagi.

Chiediamoci però cosa rappresentano i mulini a vento nella vita reale di Don Chisciotte.

Con le loro “lunghe braccia” e i loro alti telai, funzionano come caricature di giganti. Un’altra possibile interpretazione è che i mulini a vento rappresentano la tecnologia, la distruzione del passato e la perdita dei valori cavallereschi.

I due principali conflitti nel Don Chisciotte sono quelli della persona contro se stessa e persona contro società. Questa storia è persona contro se stessa perché Don Chisciotte si è intrappolato nel suo mondo.

Annunciata dall’Ansa, la notizia scuote i salotti, che per tradizione non associano alla nostra città meneghina una storia ebraica particolarmente rilevante. Non a Venezia, non a Roma, non a Ferrara, ma a Milano nascerà a Milano il Museo nazionale della Resistenza. Parola dell’attuale ministro dei Beni culturali e del sindaco di Milano. E’ stata eletta come sede la seconda piramide di Herzog in piazzale Baiamonti.

La piramide verrà realizzata di fronte a quella già esistente della Fondazione Feltrinelli.
    In aggiunta ai 2,5 milioni di euro stanziati in passato, dice Ansa, se ne stanzieranno altri 15.

La comunità ebraica di Milano

Al di là della valenza simbolica di Milano come polo aggregativo, va detto che la comunità ebraica di Milano conta oltre 7mila iscritti, ed è seconda solo a Roma per importanza. La storia di questa comunità si può trovare nel libro di Rony Hamaui, “Ebrei a Milano”, edizioni Il Mulino. Nè ghetti, nè cimiteri abbandonati, nè storie rilevanti di ghettizzazione pubblica o privata. Forse il motivo della scelta di Milano risiede anche in questo, nella attuale constatazione di zona neutrale e pacifica, e quindi in un omaggio indiretto alla città.

Capitale culturale

Ma non possiamo escludere, come già detto, Milano come polo culturale ormai imprescindibile per qualsiasi nuova struttura. Capitale degli eventi e finestra sull’Europa. Raggiungerla, per i cittadini internazionali, è diventato sempre più facile, complici anche le compagnie aeree low cost che la collegano al resto dell’Europa. Ma basta camminare per le strade di Milano per percepire la vocazione internazionale dei suoi abitanti.

Il museo nazionale della Resistenza potrà suscitare invidie dalle altre nostre Capitali, alcune delle quali giustificate. Però è un riconoscimento che, in fondo, abbiamo meritato.

Il povero Patroclo, amico e amante di Achille e oggetto del suo desiderio, viene spesso dipinto con un povero inetto.

Non parlo ovviamente dell’Iliade, che ne dà un’immagine ben definita e addirittura dotata di personale sfoggio di coraggio.

Parlo piuttosto della vulgata, dell’immagine che ci siamo tutti fatti di questo mortale sempre stampella del più famoso e valoroso Achille. In realtà chi ha studiato un po’ meglio le pagine omeriche, sa che Patroclo è protagonista di una vera e propria aristìa, cioè il momento in cui si mettono in mostra tutte le proprie abilità belligeranti uccidendo un numero di solito spropositato di nemici.

Per Patroclo l’aristia assume tratti iperbolici quasi surreali. Compie una strage di 27 nemici in soli tre assalti. Il problema è che alla fine nella propria dimostrazione di valore si ostina a inseguire i Lici e i Troiani.

Il narratore onnisciente attribuisce a questa sua mancanza la nera sorte che mi toccherà: di nuovo il commento del poeta onnisciente arriva quando Patroclo si lancia nuovamente nella mischia. Gli viene chiesto, in un’apostrofe che ha lo scopo di scuscitare pathos: “a chi allora per primo, a chi togliesti per ultimo l’armi, quando gli dei ti chiamarono a morte”?

Patroclo e l’ubris

Ho citato il passaggio solo per non dare adito a interpretazioni: si è portati a credere che l’eccessiva manifestazione di buone qualità (ubris) scontenti dei olimpici, ed è quasi sempre così per gli altri.

Però in questo caso il poeta è più che altro in empatia con Patroclo. Gli dice di tornare a casa, di ripararsi, di sfuggire dal Fato, non che le sue azioni eroiche sono eccessivamente iperboliche e gli stanno provocando la morte.

È evidente che a differenza di altri personaggi, Patroclo suscita la compassione reale del poeta, l’immedesimazione. Un poveretto, più che una minaccia, per gli dei.

Probabilmente era il personaggio in cui davvero l’uditorio si immedesimava, quella del povero mortale sottostante al fascino di qualcuno di infinitamente superiore a sé, Achille.

Forse come l’uomo di teatro che sottostava al fascino degli attori in scena, della  messinscena stessa.

Il narratore dell’Iliade allude in modo prolettico alla morte di Patroclo per tutto il poema: ad esempio nell’ottavo libro si profetizza esplicitamente che “non certo prima il possente Ettore desisterà dall’attacco che presso le navi si risvegli il pericolo veloce, il giorno in cui tutti loro combatteranno vicino alle offerte in una stretta tremenda, attorno a Patroclo morto”.

La morte di Patroclo viene riferita in modo a cui forse non siamo abituati e che è tipico dell’epoca; come se fosse un dettaglio irrilevante e di secondo piamo, viene buttata nell’azione prima ancora dell’ingresso del personaggio di Patroclo nell’alchimia della storia.

L’inutilità di Patroclo

Questo ci dà la cifra di quanto poco contattasse in realtà questo mortale per la scala di valori dell’epoca, anche se per l’economia narrativa è fondamentale. Ancora, nell’XI libro Achille decide di inviare Patroclo da Nestore per avere notizie sugli ulteriori sviluppi del combattimento. L’amico mortale incede simile ad Ares, ma il narratore con piglio onnisciente commenta che sarà “il principio della sua fine”.

L’inquietudine del protettore

Non per niente Achille, che conosce il peso della sorte è della gloria, prova sempre una certa apprensione, anche quando consente all’amico Patroclo di andare in battaglia.

Gli chiede infatti tornare presto indietro dopo aver compiuto la propria aristeia, perché gli dèi non lo guardino troppo. Anche durante la sua vestizione Patroclo dimostra tutta la propria inadeguatezza: non riesce a impugnare la pesante lancia di Achille, in primis, e questo costituisce un chiaro preludio a quello che succederà. Quando il dio sleale (Apollo) provoca la morte del giovane, in qualche modo noi già ce l’aspettavamo, ma in fondo la narrativa dell’epica è molto diversa, anche come ritmi, rispetto a quella odierna.

Una morte immeritata

Quello che più colpisce è che Patroclo non si era meritato questa morte. Gli errori suscitano l’empatia di noi moderni, e Patroclo commette quello di essersi trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato.

Non aveva nemmeno tentato di indispettire  una divinità, né di attirarne l’invidia con ubris eccessiva o con blasfemia. Però l’ha fatto il suo mentore Achille, e come tutti i deboli e mortali, anche Patroclo risente dei numi tutelari che si è scelto.

Morale della favola: sceglietevi meglio i vostri protettori.

Il fallimento per un esploratore fa parte del gioco. Così almeno verrebbe da credere a noi moderni, alla luce della vita e esplorazioni di Ernest Shackelton, autore del grandioso fallimento della spedizione in Antartide.

In realtà, leggendo il memoir di Shackelton, “Sud”, ci rendiamo conto che spesso il fallimento diventa un modo comune, quasi sistematico, per affrontare il grande mondo dell’esplorazione geografica.

Ma andiamo con ordine.

Shackelton e il fallimento della missione in Antartide

La storia si è svolta in un modo piuttosto semplice e lineare: a fronte di una programmazione dettagliata della spedizione in Antartide, il baldanzoso esploratore nel 1915 sbagliò semplicemente i calcoli: la sua nave e l’equipaggio rimasero intrappolati nei ghiacci. 

Nel buio, in mezzo al nulla, furono così costretti a tornare a casa. La storia del recupero è secondo me molto affascinante, ma merita di essere letta dal pugno di chi l’ha vissuta, e quindi vi devo consigliare la lettura integrale del memoir “Sud”, disponibile in libreria ma anche in e-book, per i più impavidi.

Quello che in realtà mi colpisce di più di questa storia è che Shackelton fu sottoposto anche a diversi travagli nella vita personale.

E in qualche modo, ne uscì eroicamente.

Eroismo e fallimento

Vita amorosa non soddisfacente (a suo dire), alcolismo: vari e pesanti furono i disagi che accompagnarono Shackelton, che dal proprio auto-ritratto emerge con un’aura da misterioso e dannato che ben si accorda con la figura dell’esploratore.

Però, com’è possibile che sia riuscito a convivere con quelli che la sua epoca certamente etichettava come costanti fallimenti? Cosa ha reso possibile la riabilitazione che riesce a fare di se stesso nel memoir “Sud”?

Forse, stiamo guardando la questione con gli occhi appannati. Pensiamo all’afflato stesso dell’esplorazione: andare all’ignoto, ricercare la Verità, e forse non tornarne mai vivi. Lo stesso fascino che siamo abituati ad assegnare a Moby Dick ricade quindi sull’esploratore fallimentare. Facile essere eroici quando scopri il Polo Nord, ma quando rimani intrappolato nei ghiacci, e non cedi al disonore, cammini per chilometri al gelo e ne esci?

Shackelton può insegnarci moltissimo sulla gestione del fallimento nelle esplorazioni, e a non considerarlo più come tale. Leggetevi “Sud”, e fatemi sapere cosa ne pensate!