Continuiamo a parlare di nuovo cinema brasiliano con uno dei suoi esponenti più rappresentativi: Nelson Pereira dos Santos.

La storia

Nelson Pereira Dos Santos è stato definito il “padre”, la “coscienza” e persino il “Papa” del movimento per l’impronta personalissima e insieme seminale che ha saputo dare a questa corrente.

Nel 1954, con la realizzazione di Rio Quarenta Graus (Rio 40°), dos Santos diede il via a quel tipo di cinema indipendente e a basso costo che divenne caratteristico del nuovo cinema brasiliano, potremmo dire un cinema “indie” dell’epoca, ma con accezione ben meno pop e molto più “popolare” in senso stretto.

Nel 1953, dos Santos aveva lavorato come assistente di Alex Viany in Agulha no Palheiro in “L’ago nel pagliaio”, il primo lungometraggio brasiliano ad adottare i principi del neorealismo italiano. Ad esempio, erano considerati elementi neorealisti le riprese in esterni, l’uso di attori non professionisti e la trattazione di argomenti contemporanei e popolari in modo molto semplice, diretto e non drammatico e teatrale.

Dos Santos si opponeva radicalmente al modello hollywoodiano imitato dai precedenti tentativi di industria brasiliana e considerava la sua adozione dei principi neorealisti un atto “politico”, parte consistente del Cinema Novo.

Rio 40

Rio 40° inizia con una samba popolare [“Voz do Morro”] del carnevale più recente, ma la forma narrativa serrata della chanchada viene rifiutata per una struttura episodica in cui i personaggi centrali sono sostituiti dalla città di Rio de Janeiro e dalla sua gente.

I suoi personaggi

Concentrandosi sui poveri afro-brasiliani e sulla loro interazione con gli altri livelli della società nei regni del futebol (calcio) e del carnevale, le due attività culturali più rilevanti per la vita della maggioranza povera dei brasiliani, Rio 40° ha gettato le basi per un movimento cinematografico che avrebbe raccontato la verità sulla misera condizione dei marginali del Brasile, sostenendo al contempo la ricchezza della loro cultura.

Corrente avanguardistica indispensabile per chi vuol dirsi un conoscitore della settima arte, il nuovo cinema brasiliano o Cinema Novo ha tanto, davvero tanto da raccontarci.

Facciamo qualche nome giusto per non rimanere completamente digiuni da questa corrente da riscoprire in toto.

Oscarito e Grande Otello

Qui si svilupparono le carriere di una grande squadra comica, Oscarito e Grande Otello. In particolare, sono apparsi in Carnaval Atlântida (1952, regia di José Carlos Burle), dove un produttore cinematografico di nome Cecilio B. de Milho cerca di filmare la vita di Elena di Troia alla maniera “epica” di Hollywood.

Oscarito interpreta un anziano professore di lettere, il professor Xenofontes, che aiuta i registi, mentre Grande Otello, nei panni di un malandro carioca (una tipica canaglia di Rio), aiuta a convincere i produttori che il film dovrebbe essere meno serio, più popolare e forse anche completamente infedele all’originale.

Lo studio Vera Cruz

Il successivo e più ambizioso sforzo dello studio brasiliano, Vera Cruz, a San Paolo, lavorò direttamente contro la volgarità percepita della chanchada popolare, cercando di produrre film che potessero competere a tutti i livelli con le produzioni straniere.

Sfortunatamente, i cineasti della Vera Cruz trascurarono di prendere in considerazione i gusti del pubblico brasiliano, fornendo loro film sofisticati ma di stampo europeo, e la società si chiuse dopo aver realizzato solo 18 lungometraggi nel 1954.

Il loro più grande successo fu il brasilianissimo O Cangoceiro (Il bandito, 1953, regia di Lima Barreto), che batté i record di incassi locali, vinse due premi a Cannes nel 1954 e fu distribuito in 22 paesi.

Alberto Cavalcanti

Alberto Cavalcanti, il regista brasiliano di maggior successo prima degli anni Sessanta, era stato assunto dalla Vera Cruz nel 1949 come responsabile della produzione, ma se ne andò prima del fallimento (forse fu licenziato) e girò altri due film per un’altra società, uno dei quali, O Canto do Mar (Il canto del mare, 1953), nel suo “realismo” anticipava il periodo più importante della storia del cinema brasiliano, il Cinema Nôvo degli anni Sessanta.

Il più grande Paese dell’America Latina, sia per estensione geografica che per popolazione, il Brasile è anche la patria di un importante cinema nazionale, che in Nord America e in altre parti del mondo ha ricevuto meno riconoscimenti di quanti ne meritasse, fino al recentissimo successo internazionale di Central do Brasil (Stazione centrale, regia di Walter Salles, 1998) e di Cidade de Deus (Città di Dio, 2002) di Fernando Meirelles/Katia Lund.

La prima proiezione di film in Brasile ebbe luogo nel 1896, solo sei mesi dopo la prima proiezione dei fratelli Lumiere a Parigi. Nel 1898, un italo-brasiliano, Affonso Segreto, iniziò a produrre film e, a partire dal 1900, i film di produzione locale iniziarono a dominare gli schermi brasiliani.

L’età dell’oro del cinema brasiliano

Il periodo 1908-1912 è stato definito la bela época, l'”età dell’oro” del cinema brasiliano, in cui la produzione raggiungeva i 100 cortometraggi all’anno. Dopo che nel 1911 gli imprenditori nordamericani furono accolti per sfruttare il mercato dell’esercizio cinematografico brasiliano, i film stranieri cominciarono a prendere il sopravvento. Sempre più spesso, durante gli anni rimanenti del cinema muto, i registi brasiliani furono relegati a produrre cinegiornali e documentari.

Tuttavia, da questo campo emersero alcuni film di finzione, tra cui le produzioni dell’immigrato italiano di San Paolo Gilberto Rossi, di cui il cortometraggio Exemplo Regenerador (Esempio moralizzatore, 1919), diretto e scritto dallo spagnolo José Medina, è l’unico esempio sopravvissuto del lavoro del gruppo. Il cinema brasiliano fu sostenuto per tutti gli anni Venti da cineasti che lavoravano lontano dai centri urbani di Rio de Janeiro e São Paulo in “cicli” regionali. Tra questi Silvinio Santos a Manaus (Amazzonia), Edson Chagas e Gentil Roiz a Recife (Pernambuco) e, soprattutto, Humberto Mauro a Cataguases (Minas Gerais). Questa cinematografia “indipendente” si orientava naturalmente verso l'”avanguardia” e un film realizzato in questo senso, Limite (Il confine, 1930), diretto dal diciottenne Mario Peixoto, anche se all’epoca non era molto visto, ha poi acquisito una tale notorietà da essere in cima alla lista dei “30 film più significativi della storia del cinema brasiliano” in un sondaggio dei critici cinematografici brasiliani degli anni Ottanta.

L’arrivo del sonoro

Spesso la tecnologia favorisce l’acculturamento.

Con l’avvento del sonoro e un problema linguistico per il pubblico di lingua portoghese che doveva continuare a guardare i film di Hollywood, il cinema brasiliano si è finalmente industrializzato. Adhemar Gonzaga fondò la Cinédia Sudios a Rio e un nuovo genere, molto brasiliano, dominò la sua produzione, la chanchada, che derivava dalla “revue” hollywoodiana e dal backstage dei musical mescolati al teatro comico brasiliano e al carnevale.

Carmen Miranda divenne una star di Cinédia e la sua “defezione” a Hollywood scatenò un’ondata di film brasiliani (e di altri film pan-latinoamericani) a tema, nell’ambito della politica del “buon vicinato”, che non fece nulla per promuovere i film latinoamericani negli Stati Uniti e il cui risultato più notevole fu l’incompiuta docufiction di Orson Welles, It’s All True (1941-42).

Nel 1943, Moacyr Fenelon fondò gli studios Atlântida a Rio, dove fu perfezionata la forma della chanchada, in cui la parodia fu sempre più incorporata, in parte con la consapevolezza che i film brasiliani non avrebbero mai potuto eguagliare la brillantezza tecnica di Hollywood.

(continua)

Mi è stato detto da una persona amica che sarebbe opportuno fare una piccola guida con qualche indicazione per i giovani investitori, o in ogni caso per chi si affaccia per la prima volta all’affascinante mondo della finanza.

Premetto che non sto elargendo verità assolute e non ho pretese manualistiche, ma voglio solo provare a dare un’infarinatura a chi è ancora digiuno da stock, azioni, obbligazioni e altri termini simili.

Le frodi

Invece di impostare questa miniguida come un glossario, mi sembra più saggio concentrarmi su un problema molto ricorrente: le frodi.

Se ricevi una promozione azionaria non richiesta, sii prudente.  Chiunque stia promuovendo l’azione potrebbe trarre profitto a tue spese gonfiando il prezzo dell’azione e poi vendendo le azioni.  I truffatori spesso usano tecnologie o industrie emergenti – comprese le offerte iniziali di monete (ICO) e i beni digitali – per attirare gli investitori come parte di uno schema fraudolento o manipolativo. Per esempio, possono annunciare pubblicamente uno sviluppo che è destinato a influenzare il prezzo delle azioni di una società. Oppure possono promuovere una società che sostiene di sviluppare prodotti o servizi relativi alle ultime notizie o tendenze.

Attenzione alle azioni microcap

Le informazioni disponibili al pubblico sui titoli microcap (titoli a basso prezzo emessi dalle società più piccole), compresi i penny stock (i titoli a prezzo più basso), spesso sono scarse.  Questo rende più facile per i truffatori diffondere informazioni false. Inoltre, è spesso più facile per i truffatori manipolare il prezzo delle azioni microcap perché le azioni microcap sono storicamente meno liquide delle azioni di società più grandi e spesso non sono scambiate su una borsa valori nazionale. 

Come accorgersi della frode

Ad esempio, il truffatore potrebbe raccomandarti di comprare azioni. Se le azioni della società sembrano essere promosse più pesantemente dei suoi prodotti o servizi, allora c’è un problema.

Inoltre, diffida di chi non ha dietro alcuna operazione commerciale reale: in alcuni casi i penny stock che sono promossi in modo aggressivo possono essere titoli di società di comodo dormienti. 

Altro fattore a cui prestare attenzione: l’aumento inspiegabile del prezzo delle azioni o del volume degli scambi, oppure la sospensione del trading da parte di organismi di controllo.

Anche, i frequenti cambiamenti nel nome della società o nel tipo di attività, o nella ragione sociale.

A prima vista la nave degli schiavi sembra raffigurare un bel tramonto su un mare tumultuoso. 

Un netto contrappunto agli orrori e alla barbarie che sono il vero soggetto. 

La fine della schiavitù

La partecipazione britannica alla tratta degli schiavi era illegale dal 1807, invece la schiavitù venne bandita nell’impero britannico meno di una trentina di anni dopo. 

Il dipinto fu inizialmente di proprietà del critico d’arte John Ruskin, ma alla fine il peso della proprietà divenne troppo per lui, così lo vendette. In America fu poi esposto nel 1877 al Museum of Fine Arts di Boston, dove avrebbe avuto un ruolo importante nel loro dibattito abolizionista, dato che la schiavitù americana era stata ugualmente abolita (1865).

Il soggetto del quadro è nel suo titolo originale completo “Schiavisti che gettano in mare i morti e i morenti – Tifone in arrivo”. Deriva dalla pratica comune, brutale e macabra nella rotta del Medio Passaggio della tratta degli schiavi dell’Atlantico di gettare in mare gli schiavi malati perché erano assicurati contro l’annegamento, ma non contro la morte per malattia. E nello specifico si riferisce al viaggio della Zong nel 1783, quando 132 schiavi furono uccisi in questo modo. Solo merci deperibili danneggiate nel trasporto e scartate.

Il grande amico e mecenate di Turner dalla fine del 1700 fino alla sua morte nel 1825 era il proprietario terriero, deputato, scrittore e attivista politico Walter Ramsden Fawkes che aveva fatto una campagna a fianco di William Wilberforce per l’abolizione della schiavitù. Turner aveva forti convinzioni su questa grande causa politica dell’epoca. Le sue convinzioni politiche significarono anche che prese una posizione contro la guerra con il suo dipinto ad olio Il campo di Waterloo del 1818, che infastidì così tante persone che fu tenuto sotto chiave per decenni. Fece anche una campagna per la riforma del voto con il suo acquerello Northampton del 1830, che è evocativo della rivoluzione francese.

Cenni di vita di un grandissimo artista

Turner fu professore di prospettiva alla Royal Academy per 30 anni, quindi non sorprende che in Slave Ship abbia usato molte tattiche per creare uno spazio fittizio credibile e per sospendere la nostra incredulità, in modo che il terrore colpisca in pieno. La composizione è dipinta da una prospettiva elevata, come se si guardasse dal ponte di un’altra nave. Il bagliore riflesso del sole taglia un solco attraverso il tumulto, fornendo il nostro riferimento principale e formando una croce cristiana con l’orizzonte. Altre linee all’interno del dipinto puntano verso il sole come punto di fuga, la scala comparativa tra gli oggetti in primo piano e la nave rafforza l’effetto.

Il dipinto è totalmente asimmetrico e in gran parte privo di dettagli. La nave in lontananza a sinistra è uno spettro che naviga verso una vastità oscura (o è una costa rocciosa con frangenti alla sua base?). Questo immaginario può essere visto come una condanna della natura dell’atto, una punizione divina. In primo piano ci sono gli schiavi morti e morenti, divorati dalla vita marina e abbandonati al loro destino, posti vicino allo spettatore dell’immagine per il massimo impatto orribile.

L’uso del tono è drammatico e convincente. La semi-silhouette oscurata della nave a cavallo tra le aree più chiare e quelle più scure dell’immagine. La luminosità generale della parte destra dell’immagine che contrasta con l’oscurità generale della parte sinistra. E attraverso tutto questo la luminosità bruciante del tramonto che divide in due l’intera composizione e la trasforma in una sorta di trittico. Il cielo a sinistra, sopra la nave, è lacerato e violento mentre a destra è calmo e tranquillo, con macchie di blu.

Mentre la luce dovrebbe venire verso di noi dal tramonto, Turner ha usato la licenza artistica per farla arrivare da molte direzioni, per esempio illuminando il nostro lato della nave e la gamba ammanettata che spunta dall’acqua. Questa libertà gli permette di modellare il mare in modo che le onde siano tangibili, con forma e volume reali, mentre allo stesso tempo sono impegnate in un violento tumulto e movimento. 

Ecco che basta poco, per capire quando un quadro è un grande quadro.

Ma dubito che sia facile ottenere l’effetto, da parte di chi crea.

Quindi, godiamoci Turner!

Miracolo per gli investitori, scempiaggine per gli appassionati d’arte, gallina dalle uova d’oro per artisti: gli NFT assumono molti volti diversi a seconda di chi ne parla, e del contesto nel quale se ne parla. Una sola cosa è certa: qualcuno ci sta guadagnando incredibilmente, in questo preciso momento.

L’investimento volatile del momento

È curioso come un mercato di nicchia e destinato solo a un certo tipo di investitore, come quello dell’arte contemporanea, sia diventato un fenomeno sulla bocca di tutti, anche in ambiti tecnici e per neofiti della finanza e dell’investimento.

Forse mi sono perso qualche passaggio intermedio della progressiva consapevolezza fiscale che sembra aver investito il mondo globalizzato negli ultimi anni. Io ero fermo a un mondo nel quale solo chi aveva discrete competenze economiche e una buona base di metodo di studio (in generale) si dedicava all’investimento.

Ma soprattutto, il piccolo risparmiatore raramente perdeva del tempo per acquisire le conoscenze necessarie per investire da solo o da sola.

Oggi, complici forse le piattaforme che consentono a chiunque di investire tramite internet, ma anche i molteplici video motivazionali che vedo fioccare ogni volta che apro Youtube, tutti si sono improvvisati investitori.

Ricordo con amarezza cosa successe l’ultima volta che vidi un tale fenomeno in atto, con i bond argentini nel 2001. Ma oltre a invitare i miei conoscenti alla diffidenza, non posso fare molto altro.

L’onda degli NFT ingloberà e risputerà i più piccoli e fragili di noi, come ogni altra moda finanziaria ha fatto.

Perché sono così convinto? 

Innanzi tutto, perché la volatilità del loro valore è ancora troppo alta. Ma anche, perché il prestigio sociale derivato dal possesso e dall’esposizione di una reale opera d’arte raramente potrà essere emulato da un oggetto digitale.

Parliamo molto di Metaverso, di social network che sostituiscono la vita reale, ma a mio parere sempre di oggetti fisici stiamo parlando.

Se togliamo l’appetitosità del mondo fenomenico, che cosa ci rimane?

Tutte le storielle finiscono, prima o poi, e temo che anche gli NFT faranno la stessa fine.

Un altro anno di pandemia grava nella nostra memoria e viene – speranzosamente – additato come lontano da molti, esperti e non.

Che poi, si può essere esperti di pandemie?

Oggi vorrei, con piglio ostinato e non poco greve, ricominciare. Credo che anche per chi ha visto ben altre rivoluzioni, dal crollo del muro di Berlino e fine dell’Unione Sovietica, fino ai racconti crudeli dei reduci delle guerre mondiali, gli anni di piombo, la mafia, insomma anche per chi pensava di passare un tramonto felice, sia occorso questo impedimento.

Forse chi è più navigato rimane meno colpito dagli stravolgimenti della sorte, e nel contempo ne è più consapevole. Forse non sono altro che uno dei tanti miei coetanei, costretto a tramutare una sensibilità storica in un dibattito completamente nuovo, che riguarda cifre, numeri, sanità e salute pubblica.

Quel che mi colpisce molto, e che per me è una categoria del tutto nuova, è la sopravvivenza del pensiero politico, anche in questo tipo di problematica universale e a cui tutti siamo in qualche modo sensibili.

La politica emerge sempre, e dobbiamo considerare sempre la sua forza, quando si tratta di interpretare la realtà e di prendere delle decisioni orientate al bene comune.

Ecco quindi che il mio piglio diventa sartriano, comptiano: sono pronto ad affrontare questo nuovo anno con un occhio più critico, più sociologico, e più attento a una dimensione della cultura che sia viva, popolare nel senso di proveniente dalle masse.

L’elitarismo sta scricchiolando. 

Andiamo su impalcature più robuste.

Nel nostro percorso etno-archeologico per cercare di capire da dove provenga la tradizione dei sacerdoti di Diana del bosco di Nemi (antica usanza italica) abbiamo fatto diversa strada.
Abbiamo visto ad esempio il ruolo di potere e magia, intesa sia come superstizione che come naturale evoluzione religiosa.
Questo perché la fusione tra potere temporale e potere spirituale è successa a varie latitudini in varie epoche storiche, non solo nel bosco di Nemi dedicato a Diana, da cui ha origine il cruento rituale dell’uccisione del re sacerdote da parte del futuro sacerdote.
Quindi, è un re-mago-politico?
Non potrebbe il re del Bosco avere avuto un’origine simile a quella che una verosimile tradizione indica per il re sacrificale di Roma e il re titolare di Atene?
O meglio, i suoi predecessori non avrebbero potuto appartenere a un antico re-sacerdote, che una rivoluzione repubblicana avesse poi spogliato del potere politico, lasciamo solo le mansioni religiose e l’ombra della corona?
La risposta secondo me è negativa.
Un re del bosco
Se i predecessori del sacerdote nel bosco di Nemi fossero stati re, lui avrebbe dimorato nella città dove gli è stato tolto lo scettro, quindi Aricia. Ma abbiamo detto che Ariccia sorgeva a oltre 5 km dal suo santuario nella foresta accanto alla sponda del lago.
Se regnava, non regnava in città, ma regnava nel bosco.
Era probabilmente un re legato a una tradizione naturale, quella del bosco, da cui prende il nome. Quindi è improprio accostare questo tipo di divinità ai monarchi di cui ho parlato precedentemente, il cui controllo sulla natura è generico e non specifico. Ci sono invece nella storia di diversi popoli dei Re legati a fenomeni naturali. In particolare, nella tradizione ariana troviamo spesso il culto degli alberi con un ruolo di primo piano.
La cosa non deve stupirci perché in Inghilterra, in Germania e nel nord Italia le regioni erano interamente coperte da boschi: se ricordiamo Livio parlava delle tremende sterminate selve germaniche. Anche la greca Arcadia era nota per le sue splendide popolazioni montane di alberi. Grimm giunse alla conclusione che fra gli antichi Germani i santuari erano probabilmente le foreste.
Ci sono le Sacre Querce dei druidi tra le genti celtiche e il loro antico termine per indicare un santuario è identico al termine latino nemus, che sopravvive nel toponomastico Nemi.
Vietato strappare l’albero sacro
Chiunque strappava un ramo o una parte dell’albero nelle popolazioni germaniche veniva sottoposto a durissime punizioni .
Oppure ancora nel santuario di Asclepio a Coo era vietato abbattere i cipressi, pena un’ammenda di 1000€; ma anche nel foro di Roma il fico ruminale sacro a Romolo fu venerato fino all’epoca imperiale. Quando il suo tronco si seccò, tutta la città ne rimase fortemente dispiaciuta. Diverse popolazioni, soprattutto quella dei nativi americani, ritenevano che uccidere un albero fosse altrettanto colpevole che uccidere un animale.

Ecco che i contorni dei re-sacerdoti della foresta di Nemi si fanno pian piano più chiari.

Abbiamo visto come la magia fosse una forma di controllo sociale e controllo divino. Dalla magia la comunità umana è poi culturalmente transitata verso la religione, che introduce l’ulteriore passaggio dell’intercessione con il Dio per ottenere ciò che per l’uomo è più utile. A metà strada in questa intercessione si possno trovare alcune figure soprannaturali a metà tra uomo e Dio, che grazie alla loro potenza superiore possono meglio aiutare gli uomini nella loro intercessione.

Vediamo meglio di cosa si tratta.

Semidei

Per un buon selvaggio le forze della natura non sono oggetto di timore, né possono costringerlo o imprigionarlo: conoscendo le giuste leggi e studiandole, egli sale sul piedistallo dell’uguaglianza ed è mediamente in grado di controllare le forze soprannaturali. La magia è più democratica della religione, a mio parere, proprio per questo aspetto.

Via via che il suo antico senso di parità con gli dei svanisce, il selvaggio rinuncia però alla speranza di poter gestire il corso della natura con le sue forze; l’uomo si tende a rivolgere sempre più agli dei come unici depositari di quei poteri soprannaturali che un tempo condivideva. 

Dalla magia alle preghiere e sacrifici, tipici della religione

Ecco che man mano che la conoscenza progredisce, le preghiere e sacrifici assumono un ruolo di primo piano mentre la magia viene relegata alla negromanzia. La magia incontra l’opposizione dei sacerdoti, la cui reputazione e influenza aumentano o diminuiscono con quella del concetto di dei. 

Quando finalmente – in epoca successiva – emerge la differenza tra religione e superstizione, vediamo come la porzione più illuminata della società si rivolga al sacrificio e alla preghiera, mentre la magia resta il rifugio dei superstiziosi e degli ignoranti. 

A un certo punto della storia – però – la magia torna in auge e grazie all’alchimia conduce alla chimica, e quindi alla scienza. I semidei sono figure bizzarre e non facilissime da spiegare, forse derivazione della naturale transizione da stregone e mago a dio/re. 

Cosa intendiamo con “dei”

Ovviamente, dobbiamo togliere le complesse astrazioni che attribuiamo oggi al termine “dio” e pensare a come questo veniva concepito nell’antichità. Le nostre idee sugli dei sono frutto di una lunga evoluzione intellettuale morale, a cui il selvaggio è così estraneo da non poterle comprendere nemmeno quando gli vengono spiegate. 

L’origine di questi dei può essere sia umana, sia divina, sia entrambe come nell’antica Grecia. Come esempi di dei dall’origine umile abbiamo in India due dei umanizzati molto noti, uno che inizia la sua esistenza terrena come sbiancatore di cotone, l’altro come figlio di un falegname.

Nelle comunità primitive questi dei incarnati sono molto comuni, e manifestano la propria natura operando dei miracoli per dimostrare ciò che sono al resto della comunità.

Fa parte della categoria del semidio anche il sacerdote oracolare dell’antica Grecia. È un umano per natura ma che viene occasionalmente impersonato dal dio.

Tutto questo racconto ci serve a identificare un certo tipo di figura ben precisa, che esisteva nell’antichità, e che troveremo poi nelle religioni monoteiste.

La magia in molti luoghi e etnie diverse ha sostenuto di poter dominare le grandi forze della natura creando benefici per gli uomini che la praticavano nella maniera corretta. Se così è stato, chi praticava l’arte magica era un personaggio importante e influente, in una società che nutriva piena fiducia nelle sue stravaganti affermazioni. 

Non ci sarebbe da meravigliarsi se alcuni di questi infallibili maghi avessero raggiunto una posizione di massima autorità, ad esempio assurgendo al rango di capi e sovrani. 

Manca la pioggia? Colpa del re

In diverse popolazioni antiche, se c’era penuria di pioggia e se i campi rimanevano infertili, veniva incolpato il sovrano e lo si destituiva o uccideva. 

In molte parti del mondo infatti il sovrano è responsabile del buon andamento della natura, e come ci insegna il testo “I re taumaturghi”, Anche i sovrani di Francia sostenevano di possedere le stesse virtù terapeutiche di san Luigi, che Clodoveo aveva ereditato, mentre il sovrano inglese le aveva ereditate da Edoardo il Confessore.

Allo stesso modo i capi selvaggi di Tonga guarivano dalla scrofola e dal fegato indurito con un tocco del piede: una cura basata sull’idea che la vicinanza con anche solo un oggetto o una infima parte del corpo del sovrano potesse omeopaticamente curare il male.

È arrivata poi la rivoluzione non solo sociale e tendente a una forma di governo meno oligarchica e più distribuita, come diremmo oggi democratica, che poi a varie latitudini e a più riprese sfocia nel dispotismo. 

Insieme ad essa anche la cultura è cambiata, sostituendo gradualmente la religione alla magia. Il mago cede il passo al sacerdote, che rinunciando l’idea di regolare direttamente il corso della natura a vantaggio dell’uomo, cerca di raggiungere lo stesso scopo tramite l’intercessione del Dio attraverso la preghiera. 

I sovrani politici beneficiano in realtà di tale concezione perché sebbene il contatto con il Dio si verifichi dopo la morte, si sostiene che esistano alcune persone ultra dotate in grado di concretizzare tale contatto anche nell’al-di-qua.

Ma chi sono questi dei incarnati?