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David Maria Turoldo è una figura straordinaria e unica nel panorama della teologia e della poesia italiana del XX secolo. Lo conosciamo, per chi lo conosce, come frate, poeta, intellettuale e uomo di grande fede, che ha saputo intrecciare la profondità spirituale con un forte impegno sociale e culturale. Mi è sembrato opportuno parlarne ora anche per celebrare l’uscita del libro “David Maria Turoldo – Vita di un poeta ribelle” di Mario Lancisi.

La storia

Nato in Friuli nel 1916, Turoldo abbraccia presto la vocazione religiosa entrando nell’ordine dei Servi di Maria. Fin dall’inizio, la sua ricerca spirituale è orientata verso una fede vissuta come ricerca incessante, mai statica, fatta di dubbi, di dolore, ma anche di una profonda passione per l’umanità.

La sua teologia non è mai stata separata dalla vita quotidiana e dalle sofferenze del mondo; anzi, Turoldo ha sempre cercato di portare il messaggio cristiano fuori dalle mura della chiesa, tra la gente e nelle battaglie per la giustizia sociale.

Ma il libro di Lancisi promette di non essere “una biografia” (come riporta Ansa) ma un vademecum, quasi, per comprendere meglio il suo pensiero.

Il pensiero di Turoldo in breve

Durante la Seconda Guerra Mondiale, ad esempio, si impegnò attivamente nella Resistenza, credendo che la libertà e la dignità umana fossero valori che un cristiano non poteva ignorare.

Turoldo è conosciuto soprattutto per la sua poesia, dove la sua teologia trova una forma potentemente espressiva. Nelle sue poesie, Dio non è mai una presenza distante, ma piuttosto un interlocutore vicino, con cui l’autore dialoga quasi quotidianamente, spesso con toni accesi, intensi, persino di rimprovero. Turoldo non esita a esprimere i suoi dubbi e le sue angosce, ponendo a Dio domande forti e dolorose. In molti dei suoi testi emerge il senso di una fede tormentata, che non fugge dai problemi ma li affronta di petto. Per lui, il credere è un atto di lotta e di amore: Dio è compagno di cammino, partecipe delle sofferenze umane, non un essere irraggiungibile e distante.

Negli anni Sessanta, Turoldo è stato un sostenitore del rinnovamento della Chiesa promosso dal Concilio Vaticano II, credendo profondamente nella necessità di una chiesa più vicina alla vita reale, ai problemi e alle esigenze delle persone comuni. Questa apertura lo porta spesso a scontrarsi con l’autorità ecclesiastica, soprattutto per le sue posizioni in favore della giustizia sociale e per la sua critica verso gli aspetti più conservatori della Chiesa. Turoldo non ha mai avuto paura di parlare apertamente, anche quando le sue opinioni potevano sembrare scomode o provocatorie. La sua idea di fede era quella di un’esperienza viva e partecipata, in cui il cristiano non è chiamato a obbedire passivamente, ma a interrogarsi e a cercare continuamente.

Cosa contraddistingue la sua opera

La sua opera è attraversata da un grande amore per il mondo e per le persone, soprattutto per i poveri, gli ultimi, i dimenticati. Turoldo vedeva in loro un riflesso diretto del Cristo sofferente, e per questo considerava l’impegno per la giustizia come un dovere imprescindibile per chiunque si definisse cristiano. Le sue poesie sono testimonianze di questa visione: un linguaggio che sa unire la bellezza della parola all’intensità della denuncia e alla profondità della preghiera.

David Maria Turoldo è stato, in definitiva, un profeta dei nostri tempi, una voce che richiama il cristianesimo alla sua essenza più pura e radicale. La sua spiritualità non è mai stata comoda né pacifica, ma sempre in movimento, come la vita stessa. Leggere Turoldo significa confrontarsi con una fede inquieta, una fede che non si accontenta delle risposte facili e che, proprio per questo, diventa una fonte di ispirazione.

I pettegolezzi storici sono molti, e molti riguardano le figure più di spicco. Era sufficiente, un tempo, avere dei tratti somatici interessanti, o una vita sentimentale frizzante, o subire spesso l’influenza del peccato di gola, per finire nell’annalistica più cattiva e pruriginosa.

Napoleone Bonaparte si è in buona-parte salvato da questa china, ma abbiamo comunque potuto registrare su di lui molte controversie storiche.

Le prime biografie di Napoleone

La prima biografia di Napoleone la scrisse Louis Antoine Fauvelet de Bourrienne. Era amico e segretario personale di Napoleone, dunque scrisse una biografia basata sulla sua esperienza diretta con l’imperatore.

Oltre a lui abbiamo il barone Gaspard Gourgaud, un ufficiale militare francese che fu presente durante l’esilio di Napoleone a Sant’Elena e scrisse resoconti delle conversazioni che ebbe con l’ex-imperatore.

Altre biografie

Non mancano le biografie di chi non ha conosciuto l’imperatore direttamente, o meglio non ha condiviso la quotidianità con lui o le imprese militari.

Ci sono Adolphe Thiers, storico e politico francese, autore di una ottima biografia critica su Napoleone e di diverse monografie sul periodo napoleonico.

Un altro fu Louis Madelin, storico francese che si concentra sulla natura delle conquiste militari e politiche del sovrano.

Uscendo dalla Francia incontriamo Felix Markham, scrittore e storico britannico, che mette in luce le sfaccettature della personalità del soldato di Aiaccio, e il suo impatto indelebile sulla storia europea.

Ci sono anche Andrew Roberts, con tono abbastanza incensatorio, David Chandler, che è storico militare, sempre britannico.

Altri studiosi napoleonici 

Hanno studiato Napoleone in maniera collaterale anche François Furet, storico francese che ha affrontato il periodo rivoluzionario e napoleonico e ha scritto su come questi eventi abbiano influenzato la politica e la società francese. Insieme a lui, Adam Zamoyski, storico e scrittore polacco-britannico che ha scritto diversi libri su Napoleone e sulle sue campagne militari.

Infine, non possiamo dimenticare Jean Tulard, storico francese specializzato nell’era napoleonica, ha scritto molte opere sulla vita e l’opera di Napoleone.

Non ho citato tutti, ma c’è del materiale per crearsi in autonomia una bella lista di letture napoleoniche per l’autunno!

Coriolano è un uomo di grande orgoglio che si aggrappa costantemente al mos maiorum, e che mette in luce la profonda contraddizione che vige tra il votarsi all’eroismo e l’abbandonarsi ai sentimenti. 

Il suo carattere è simile a quello di Giulio Cesare (sempre shakespeariano, chiaramente), altrettanto incrollabile nelle sue convinzioni e altrettanto allergico a certe dinamiche politiche. Però in realtà Cesare era noto per essere “costante come la stella polare”, il che lo rende ancora più risoluto e intransigente di altri uomini.

Allo stesso modo, Coriolano si rifiuta di partecipare al gioco politico, il che lo porta a essere bandito da Roma.

Nel corso dell’opera, Coriolano rimane fermo nei suoi valori e non è disposto a mendicare consensi o a recitare la parte del sepolcro imbiancato. Quando finge di occuparsi della gente comune su indicazione della madre, i tribuni lo accusano di tradimento, spingendolo oltre il limite. La sua intensa passione per Roma e il suo orgoglio sfrenato lo portano a rivelare il suo disprezzo per i popolani.

L’eroismo in Coriolano passa dalla solitudine

In termini di eroismo, l’individualità e la solitudine di Coriolano sono componenti cruciali. Combatte per l’onore e per Roma, da solo sul campo di battaglia, mentre gli altri soldati lo abbandonano per saccheggiare.

A questo punto, cattura la città da solo, diventando una “cosa di sangue”, un “pianeta”, un “dio” e una macchina. L’eroismo, a quanto pare, è in contraddizione con la natura umana, e Coriolano diventa un personaggio simile a Terminator dei primi tempi.

Umanizzazione vs eroismo

Tuttavia, quando la famiglia di Coriolano lo affronta, egli è costretto a riconsiderare i suoi valori, umanizzandolo nel processo e portando infine alla sua caduta. Volumnia, in particolare, lo costringe ad accettare il suo ruolo familiare e quindi lo umanizza.

Questa ritrovata umanità viene sfruttata da Aufidio, che chiama Coriolano traditore e lo accusa di furto. L’umanizzazione di Coriolano segna il suo destino, perdendo il suo status di eroe e, infine, la sua vita.

Alla fine dell’opera, Volumnia diventa un nuovo tipo di eroe, preservando la sua umanità attraverso la femminilità e il linguaggio. Salva Roma, guadagnandosi il titolo di “patrona” e “vita di Roma”. Quando viene riaccolta in città con Virgilia, vengono accolte come “signore”. A differenza di Coriolano, che usa la violenza e la mascolinità per raggiungere l’eroismo, Volumnia usa il linguaggio e rafforza la sua femminilità, i legami familiari e l’umanità per salvare Roma.

L’opera esplora i legami familiari di Coriolano, che è l’incarnazione della mascolinità violenta e ha forti legami sia con i soldati alleati che con quelli nemici. A differenza di molti personaggi shakespeariani che hanno madri vistosamente assenti, Coriolano non menziona il padre ma ha una madre, Volumnia, e una moglie, Virgilia, che sono entrambe figure materne nella sua vita.

Madre e moglie: come sono nel Coriolano

Virgilia è ritratta come una moglie silenziosa e solidale, mentre Volumnia mostra sia orgoglio materno che possessività. Volumnia ha spinto Coriolano ad andare in guerra quando aveva solo sedici anni e sostiene di averlo reso ciò che è. Gli dà costantemente indicazioni durante il processo politico, comportandosi come una madre della prima età moderna, come potrebbe esservi in un Checov, o in un Giacosa. Su questa intensa relazione tra Volumnia e Coriolano possiamo sbizzarrirci freudianamente e nostro piacimento, e anche sul compiacimento di Volumnia nell’affermare che non c’è uomo più legato alla madre di Coriolano.

Coriolano nega però l’amore familiare, nella scena in cui guida l’esercito volsco alla conquista di Roma. Sostiene che egli deve avere un’altra famiglia, quella volsca, perché lei, Virgilia e il giovane Marzio non sono la sua vera famiglia. Il rifiuto e il disconoscimento della sua famiglia fanno sì che Coriolano abbandoni l’invasione e urli in risposta, reclamando il suo ruolo nella famiglia.

Il ruolo della famiglia

Tutte le famiglie felici si somigliano, e il Coriolano non fa eccezione.

Nell’opera, la famiglia è sia formativa che distruttiva. Se da un lato fornisce un legame duraturo che può raggiungere anche la persona più alienata, dall’altro può creare un legame troppo stretto, come si vede nella strana dinamica edipica tra Coriolano e Volumnia. Mentre Virgilia si allinea all’ideale rinascimentale di moglie silenziosa, Volumnia rompe questo ideale e alla fine supera Coriolano e la sua mascolinità violenta, diventando nel frattempo un nuovo tipo di eroe.

Possiamo dire che le sovrastrutture moderne fossero solo lontanamente intuibili dall’animo teatrale (mi secca chiamarlo “artistico”) di un Grande come Shakespeare era e rimarrà.

Vorrei che questo fosse chiaro quando parlo di questione femminile in Shakespeare, tenendo anche in considerazione la tendenza decostruttiva a considerare l’opera anche per quello che ci dice, e non solo per quello che ci voleva dire.

Chi l’ha detto che le questioni di genere entrano nel dibattito solo nell’era contemporanea?

A Coriolano, il protagonista dell’opera, mancano il dono della lingua e una voce suadente, doni tipicamente femminili – secondo l’epoca di Shakespeare, s’intende. 

Tuttavia, la sua abilità militare e la sua inclinazione alla violenza compensano ampiamente la sua debolezza in questi ambiti. Nel dramma, Cominio pronuncia un’orazione politica magistrale, che fornisce una visione del personaggio di Coriolano. Cominio rivela che, da giovane sedicenne senza barba, Coriolano ha combattuto contro uomini maturi che sostenevano un dittatore: anche se avrebbe potuto comportarsi da vigliacco, scelse di dimostrare il suo coraggio e combatté da uomo. Fu proprio grazie all’esibizione di una tale violenza che Coriolano si conquistò il suo epiteto.

In Coriolano la violenza è strettamente legata alla mascolinità 

È la violenza che distingue gli uomini dalle donne e dai ragazzi. Cominio usa la “recita della donna” per presentare quella che viene vista come la via più vile, e quando Aufidio chiama Coriolano “ragazzo”, questo viene preso come l’insulto finale e oltraggioso. Anche qui emerge come la lingua sia un dispositivo fondamentale per il nostro Bardo.

La violenza e la guerra servono a legare i singoli uomini, creando un legame omosociale. Pertanto, nell’opera, la violenza è ciò che crea e definisce le relazioni sociali tra gli uomini. Quando Coriolano vede il suo alleato, il generale Cominio, sul campo di battaglia, esprime il desiderio di stringerlo tra le braccia. È felice di vedere il generale come lo era il giorno del suo matrimonio.

Rivalità militare

Allo stesso modo, Coriolano e Aufidio hanno una feroce rivalità militare. Hanno giurato di combattere l’uno contro l’altro nel corpo a corpo ogni volta che si incontrano in guerra, eppure sono legati e uniti da questa rivalità. La retorica in cui la violenza e la guerra sostituiscono l’amore e il matrimonio mostra come questi uomini siano uniti dalle loro esperienze comuni di violenza. Quando Coriolano viene bandito da Roma e va a trovare Aufidio, il suo ex rivale, Aufidio lo saluta in un modo che suggerisce che è più felice di vedere Coriolano che la moglie che ha varcato la soglia il giorno del suo matrimonio. 

Potrei sbilanciarmi e affermare che i confini tra guerra, violenza e sessualità sono qui talmente sfumati da essere quasi indistinguibili. 

La passione per gli alleati e persino per i nemici sembra prevalere su quella che Coriolano ha per la sua amante. 

Aspetto forse meno considerato del Coriolano rispetto a quello della politica, in realtà la lingua è un tema che stava molto a cuore al Bardo, e che anche in questa precoce opera inevitabilmente affiora.

Il linguaggio e il suo potere nel Coriolano

Più volte si ribadisce: “il linguaggio è potere”. Nell’opera, i plebei sono chiamati “voci”, sia per le loro opinioni che per la loro capacità di votare. Queste “voci” sono essenziali per Coriolano, che ha bisogno del loro sostegno per diventare console. Anche i tribuni usano il linguaggio per influenzare il popolo e metterlo contro Coriolano, che verrà poi esiliato (qui la sinossi dell’opera, per gli smemorati).

In tutta l’opera, il linguaggio è usato per manipolare e oscurare la verità. Menenio lo usa per fare politica e per scegliere il vettore dell’ascensore sociale altrui. Anche Cominio, nonostante sia una figura militare, sa come usare il linguaggio per fare politica. Il suo discorso sulle gesta eroiche di Coriolano è un classico esempio di retorica persuasiva. Coriolano, invece, è un uomo d’azione che fatica con le parole. Preferisce le ferite alle parole e non ha la capacità di fare discorsi eloquenti o di fare politica.

Antroponimi: i nomi dei personaggi ci parlano!

Anche i nomi e le denominazioni sono aspetti essenziali del linguaggio nell’opera. Nella società romana, le persone avevano tre nomi: praenomen, nomen e cognomen. Caio Marzio, il protagonista dell’opera, riceve il cognomen “Coriolano” dopo aver conquistato Corioles. Questo atto lo definisce e lo trasforma da un essere umano in un eroe senza sentimenti. Tuttavia, Coriolano non comprende il potere dei nomi. Dimentica il nome di un uomo che cerca di risparmiare e sembra non sapere che il suo nuovo cognome ricorda costantemente ai volsci il modo in cui ha devastato la loro città.

Parole, distruzione e resurrezione nel Coriolano di Shakespeare

Questa tragedia più di ogni altra ce lo ricorda: le parole possono essere usate a favore o contro un individuo e i nomi possono definire l’identità di una persona. L’opera suggerisce che il linguaggio non è solo uno strumento di comunicazione, ma anche un mezzo per esercitare potere e influenza.

Coriolano è un’opera notoriamente difficile da comprendere e apprezzare. I giornalisti fanno spesso riferimento all'”effetto Coriolano” per descrivere le sfide e le complessità di un leader militare che diventa un politico. L’opera è antica e moderna al tempo stesso, in quanto esplora la politica della società della prima Repubblica romana e anticipa questioni che sono ancora attuali nel XXI secolo.

Le altre opere romane di Shakespeare

Shakespeare scrisse altre tre opere ambientate a Roma: Giulio Cesare, Antonio e Cleopatra e Tito Andronico. Tuttavia, Coriolano è il primo in termini di cronologia. Invece di concentrarsi sull’Impero romano metropolitano di Cesare e Antonio, quest’opera è ambientata agli inizi della Repubblica, in una piccola città italiana. La società suddivisione in classi ben la conosciamo, e quel che emerge qui e viene dispiegato è il conflitto che nasce dalla competizione tra queste classi per il potere e le risorse. 

La storia l’ho sintetizzata qui, ma in sostanza il suo aspetto più politico è il fatto che Sicinio Veluto e Giunio Bruto cavalchino il potere conferito loro dalla folla per diventare tribuni. 

Analogia del ventre e delle membra del corpo

Menenio, un patrizio, cerca di spiegare il rapporto tra il governo e i governati usando l’analogia del corpo politico, con l’analogia del ventre e delle membra del corpo.

Qui, il Senato è come il ventre che accoglie e distribuisce il cibo alle altre membra, che rappresentano i cittadini. Facile il parallelismo con i tentativi di soffocare gli indipendentismi che nascono da regioni produttive, come quello lombardo o quello catalano, o come fu quello del sud degli States appena la Confederazione nacque. E infatti Coriolano non se la beve.

Nella tragedia si oppone, da buon capopolo vero, con un’origine solidamente militare, ai tribuni e ai loro appelli alle masse.

L’ascesa politica

Dopo il ritorno dalla guerra, Coriolano cerca di diventare console romano. Per farlo, deve ottenere il sostegno della gente comune. Tuttavia, non può comportarsi come un politico perché considera tale comportamento ingannevole e teatrale. La sua mancanza di esperienza politica lo rende vulnerabile ai suoi avversari, che lo superano nell’arena politica. I tribuni lo fanno bandire e Tullo Aufidio, suo nemico, usa le sue abilità politiche per farlo uccidere.

Insomma, i riferimenti politici non mancano. Come tutti i Classici, anche qui possiamo astrarre questo rappresentazione e considerare come alcuni paradigmi sono ancora validissimi al giorno d’oggi, oltre che ripetutamente saccheggiati dal cinema, dalla letteratura e dal teatro.

Per quanto una persona conosca una lingua, ci sono termini che solo i madrelingua sanno pronunciare correttamente. Questa difficoltà si estende ad alcuni fonemi, gruppi vocalici o consonantici, ma quando parliamo di intere parole, allora esiste un termine specifico.

Cos’è lo shibbòleth

Esistono alcuni termini o intere frasi particolarmente complessi da pronunciare per il parlante non nativo, e si chiamano shibbòleth. Innanzi tutto, attenzione a non confondere lo shibbòleth con lo scioglilingua, difficile da pronunciare anche per i parlanti madrelingua. 

Il termine shibbòleth in realtà deriva dal secondo libro dei Giudici della Bibbia cattolica e significa in ebraico “spiga”. Ma ben più del suo significato è interessante il fatto che questo termine venisse usato come una sorta di parola d’ordine.

La storia

Infuria la battaglia tra Galaaditi ed Efraimiti.

Le armi sono quasi pari, il combattimento si svolge all’ultimo sangue, e alla fine i Galaaditi hanno la meglio.

Gli Efraimiti sono dunque in fuga, ma gli avversari non vogliono lasciarli scappare vivi.

Mentre gli Efraimiti stanno guadando il Giordano, i Galaaditi li bloccano chiedendo una parola d’ordine: il termine shibbòleth.

Impossibile da pronunciare per gli Efraimiti, che venivano così riconosciuti e uccisi durante la fuga.

Il ruolo sociale dello shibboleth

Può accadere che il parlante di una comunità linguistica sia totalmente all’oscuro del fatto di non saper pronunciare come si deve uno shibboleth, e questo evento può diventare macchiettistico e dare luogo a sipari divertenti.

In fondo l’imitazione degli accenti stranieri, di cui il nostro migliore cabaret è ricolmo, si basa principalmente sul fatto che ci sono shibboleth italiani impronunciabili per stranieri.

Nel nostro percorso etno-archeologico per cercare di capire da dove provenga la tradizione dei sacerdoti di Diana del bosco di Nemi (antica usanza italica) abbiamo fatto diversa strada.
Abbiamo visto ad esempio il ruolo di potere e magia, intesa sia come superstizione che come naturale evoluzione religiosa.
Questo perché la fusione tra potere temporale e potere spirituale è successa a varie latitudini in varie epoche storiche, non solo nel bosco di Nemi dedicato a Diana, da cui ha origine il cruento rituale dell’uccisione del re sacerdote da parte del futuro sacerdote.
Quindi, è un re-mago-politico?
Non potrebbe il re del Bosco avere avuto un’origine simile a quella che una verosimile tradizione indica per il re sacrificale di Roma e il re titolare di Atene?
O meglio, i suoi predecessori non avrebbero potuto appartenere a un antico re-sacerdote, che una rivoluzione repubblicana avesse poi spogliato del potere politico, lasciamo solo le mansioni religiose e l’ombra della corona?
La risposta secondo me è negativa.
Un re del bosco
Se i predecessori del sacerdote nel bosco di Nemi fossero stati re, lui avrebbe dimorato nella città dove gli è stato tolto lo scettro, quindi Aricia. Ma abbiamo detto che Ariccia sorgeva a oltre 5 km dal suo santuario nella foresta accanto alla sponda del lago.
Se regnava, non regnava in città, ma regnava nel bosco.
Era probabilmente un re legato a una tradizione naturale, quella del bosco, da cui prende il nome. Quindi è improprio accostare questo tipo di divinità ai monarchi di cui ho parlato precedentemente, il cui controllo sulla natura è generico e non specifico. Ci sono invece nella storia di diversi popoli dei Re legati a fenomeni naturali. In particolare, nella tradizione ariana troviamo spesso il culto degli alberi con un ruolo di primo piano.
La cosa non deve stupirci perché in Inghilterra, in Germania e nel nord Italia le regioni erano interamente coperte da boschi: se ricordiamo Livio parlava delle tremende sterminate selve germaniche. Anche la greca Arcadia era nota per le sue splendide popolazioni montane di alberi. Grimm giunse alla conclusione che fra gli antichi Germani i santuari erano probabilmente le foreste.
Ci sono le Sacre Querce dei druidi tra le genti celtiche e il loro antico termine per indicare un santuario è identico al termine latino nemus, che sopravvive nel toponomastico Nemi.
Vietato strappare l’albero sacro
Chiunque strappava un ramo o una parte dell’albero nelle popolazioni germaniche veniva sottoposto a durissime punizioni .
Oppure ancora nel santuario di Asclepio a Coo era vietato abbattere i cipressi, pena un’ammenda di 1000€; ma anche nel foro di Roma il fico ruminale sacro a Romolo fu venerato fino all’epoca imperiale. Quando il suo tronco si seccò, tutta la città ne rimase fortemente dispiaciuta. Diverse popolazioni, soprattutto quella dei nativi americani, ritenevano che uccidere un albero fosse altrettanto colpevole che uccidere un animale.

Ecco che i contorni dei re-sacerdoti della foresta di Nemi si fanno pian piano più chiari.

Abbiamo visto come la magia fosse una forma di controllo sociale e controllo divino. Dalla magia la comunità umana è poi culturalmente transitata verso la religione, che introduce l’ulteriore passaggio dell’intercessione con il Dio per ottenere ciò che per l’uomo è più utile. A metà strada in questa intercessione si possno trovare alcune figure soprannaturali a metà tra uomo e Dio, che grazie alla loro potenza superiore possono meglio aiutare gli uomini nella loro intercessione.

Vediamo meglio di cosa si tratta.

Semidei

Per un buon selvaggio le forze della natura non sono oggetto di timore, né possono costringerlo o imprigionarlo: conoscendo le giuste leggi e studiandole, egli sale sul piedistallo dell’uguaglianza ed è mediamente in grado di controllare le forze soprannaturali. La magia è più democratica della religione, a mio parere, proprio per questo aspetto.

Via via che il suo antico senso di parità con gli dei svanisce, il selvaggio rinuncia però alla speranza di poter gestire il corso della natura con le sue forze; l’uomo si tende a rivolgere sempre più agli dei come unici depositari di quei poteri soprannaturali che un tempo condivideva. 

Dalla magia alle preghiere e sacrifici, tipici della religione

Ecco che man mano che la conoscenza progredisce, le preghiere e sacrifici assumono un ruolo di primo piano mentre la magia viene relegata alla negromanzia. La magia incontra l’opposizione dei sacerdoti, la cui reputazione e influenza aumentano o diminuiscono con quella del concetto di dei. 

Quando finalmente – in epoca successiva – emerge la differenza tra religione e superstizione, vediamo come la porzione più illuminata della società si rivolga al sacrificio e alla preghiera, mentre la magia resta il rifugio dei superstiziosi e degli ignoranti. 

A un certo punto della storia – però – la magia torna in auge e grazie all’alchimia conduce alla chimica, e quindi alla scienza. I semidei sono figure bizzarre e non facilissime da spiegare, forse derivazione della naturale transizione da stregone e mago a dio/re. 

Cosa intendiamo con “dei”

Ovviamente, dobbiamo togliere le complesse astrazioni che attribuiamo oggi al termine “dio” e pensare a come questo veniva concepito nell’antichità. Le nostre idee sugli dei sono frutto di una lunga evoluzione intellettuale morale, a cui il selvaggio è così estraneo da non poterle comprendere nemmeno quando gli vengono spiegate. 

L’origine di questi dei può essere sia umana, sia divina, sia entrambe come nell’antica Grecia. Come esempi di dei dall’origine umile abbiamo in India due dei umanizzati molto noti, uno che inizia la sua esistenza terrena come sbiancatore di cotone, l’altro come figlio di un falegname.

Nelle comunità primitive questi dei incarnati sono molto comuni, e manifestano la propria natura operando dei miracoli per dimostrare ciò che sono al resto della comunità.

Fa parte della categoria del semidio anche il sacerdote oracolare dell’antica Grecia. È un umano per natura ma che viene occasionalmente impersonato dal dio.

Tutto questo racconto ci serve a identificare un certo tipo di figura ben precisa, che esisteva nell’antichità, e che troveremo poi nelle religioni monoteiste.