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Era in Barton Fink dei fratelli Coen, l’attore italo-americano dal sarcasmo pungente. Per essere una star di Holliwood, ma non solo. Parlo di John  Turturro, che a partire da marzo interpreterà uno dei più grandi classici del romanzo storico della fine del Novecento: Il nome della rosa, di Umberto Eco.

Da Spike Lee ai fratelli Coen, Turturro è transitato anche per il cinema commerciale, per poi approdare a una fiction Rai . Promette molto, con la sua eloquenza rapida, nei panni dell’astuto monaco protagonista, che consocevamo come Sean Connery nel film originale.

La giustificazione

Ecco, so che la stavate aspettando e quindi accontento le vostre aspettative: devo giustificarmi per questo imperdonabile scivolone nazional-popolare. Un blog che nasce come culturale non può che dirimere la questione di una fiction Rai come un transitorio interesse del volgo ineducato verso uno dei picchi della fiction storiografica contemporanea. Un romanzo storico in fondo ben orchestrato e sicuramente preciso, ma pur sempre un romanzo storico… E si fermassero qui i commenti!

Sono sicuro che parlare di fiction Rai in certi ambienti diventa inderogabilmente im-popolare (che paradosso, la televisione popolare per eccellenza). Ma visto che a me piacciono i paradossi, e credo dopo aver visto i trailer che questa fiction potrebbe recare la precisione necessaria per tramandare almeno una parte del reale contenuto del romanzo, non posso che parlarne.

E invitarvi tutti, sommessamente, a vederla.

Possiamo occuparci di diritto d’autore rimanendo sul filo dell’allusione storico-letteraria, senza mai entrare nel vivo dell’agone politico. Possiamo ingarbugliarci nelle definizioni e nelle nostre placide esistenze di fruitori passivi dei giganti tecnologici e di info sharing. Tutte belle cose, belle esperienze, ma in questo frangente, dopo essermi dilungato così voluttuosamente sul concetto di copyright e di diritto d’autore, e della liceità del pagamento obbligatorio per chi scrive di arte e cultura… Ma viceversa, ho fatto anche elogi dell’enciclopedista volontario, cioè di chi scrive gratia artis, e non facendosi pagare alimenta un concetto di cultura indipendente. Non posso esimermi dal commentare le vicissitudini che sta avendo la legge europea sul copyright.

La nuova legge sul copyright

Innanzi tutto, un concetto-chiave, il “mercato unico digitale europeo”. Vediamo cosa significa in termini politici: lo stato-nazione in senso ottocentesco deve avere la possibilità, come forse oggi ha un po’ meno, di controllare le transazioni economiche che avvengono entro i suoi confini.

Fin qui, la fiera delle banalità: transazioni economiche, movimenti finanziari, anche passaggi d’eredità, esercizio della libera professione… Ogni retribuzione deve quantomeno essere passata sotto gli occhi dell’autorità politica, benché poi questa tendenza possa infinitamente declinarsi in modelli statali più o meno tendenti al modello liberista, o liberalista.

Lo Stato nazione gioisce delle riforme sul copyright?

Quindi, anche internet, come il Mercato, nella parziale cessione di autorità che la Comunità Europea ha comportato, dev’essere concepito, o quantomeno normato, come “unico”.

Concepire il diritto di internet come unico è più semplice che concepire internet come unico. Il mondialismo che connota questo nuovo mezzo di comunicazione è in realtà in contrasto secondo me con la tendenza dello Stato a normare entro i propri confini nazionali.

 

C’è tempo fino al 19 maggio per gli appassionati della settima arte. Il festival di Cannes è nel pieno della sua 71esima edizione, e regala alcune proposte interessanti.

Cannes, quello che rimane

Coniugare una visita nella splendida cittadina francese con gli impegni lavorativi non è sempre facile. A chi avesse una passione latente, può risultare comunque una buona occasione per vedere lo star system calato in dei panni che non gli appartengono: quelli della sublimazione culturale.

Senza la malizia snobistica che si può percepire in questa frase: è chiaro che allo stato attuale, a Cannes un blockbuster non arriverà. Per ora, certo, ma per avere garantito ancora un minimo di tenore, dobbiamo andare al festival.

Quello che rimane della dimensione di ricerca artistica del cinema, lì lo possiamo trovare

Cannes 2018

Come ho già detto non sono propriamente un cinefilo. Matteo Garrone è stato il primo regista in concorso del quale ho parlato, perché italiano e perché ho avuto modo di vedere certi suoi cortometraggi d’esordio davvero notevoli.

Qui l’elenco completo dei film, per tutti quelli che come me li cercheranno nelle sale in anteprima, o in proiezioni ad hoc nella nostra penisola. Parlerò più avanti delle proiezioni che mi hanno colpito.

In concorso

At War, Stéphane Brizé
Dogman, Matteo Garrone
The Picture Book, Jean-Luc Godard
Asako I & II, Ryusuke Hamaguchi
Sorry Angel, Christophe Honoré
Girls of the Sun, Eva Husson
Ash Is Purest White, Jia Zhang-Ke
Shoplifters, Kore-Eda Hirokazu
Capernaum, Nadine Labaki
Burning, Lee Chang-Dong
BlacKkKlasman, Spike Lee
Under the Silver Lake, David Robert Mitchell
Three Faces, Jafar Panahi
Cold War, Pawel Pawlikowski
Lazzaro Felice, Alice Rohrwacher
Yomeddine, A.B Shawky
Summer, Kirill Serebrennikov

Un certain regard

Border, Ali Abbasi
Sofia, Meyem Benm’Barek
Little Tickles, Andréa Bescond & Eric Métayer
Long Day’s Journey Into Night, Bi Gan
Manto, Nandita Das
Sextape, Antoine Desorieres
Girl, Lukas Dhont
Angel Face, Vanessa Filho
Euphoria, Valeria Golino (con Riccardo Scamarcio e Valerio Mastandrea)
Friend, Wanuri Kahiu
My Favorite Fabric, Gaya Jiji
The Harvesters, Etienne Kallos
In My Room, Ulrich Köhler
The Angel, Luis Ortega
The Gentle Indifference of the World, Adilkhan Yerzhanov

Meteorite Ipazia, titolano i giornali.

Una figura controversa, così densa di categorie disparate da permettere appropriazioni ideologiche da fronti diversi.

Tralasciando in blocco clericalismi dell’ultim’ora, il mio pensiero va alla scuola di Atene del nostro Raffaello.

Che Ipazia trovi posto in questo consesso di grandi è in realtà un’equazione non così scontata. Lo stilnovismo, la mentalità cortese e la letteratura trobadorica da sole non bastavano ovviamente ad acuire l’interesse verso coloro del gentil sesso che manifestassero inclinazioni aristotelicamente “maschili”. La Beatrice dantesca non ha meriti intellettuali di sorta, per intenderci.

Un altro fattore da considerarsi è l’interesse dell’Umanesimo in un certo senso relativistico verso le conquiste scientifiche. Mi spiego, l’Umanesimo ha in sé i germi del metodo galileiano, almeno così ci insegnano i manuali di letteratura vocati alla nozione di continuità storica e progresso. Secondo questa visione, l’Umanesimo non è che un preludio, con la sua ricerca filologica, al tentativo di scandaglio veridico che poi sarà prerogativa e caratteristica delle scienze.

Meteorite Ipazia, una fusione tra generi

Il meteorite Ipazia quindi mi evoca anche quel meteorite che fu quella figura storica. Una donna, innanzi tutto, che per l’epoca ellenistica aveva più spazio di manovra della donna ellenica. Più accesso alla cultura, quantomeno, vista la fruizione documentata bi-genere delle Biblioteche di Alessandria e Pergamo, ad esempio. Ora, non so se fossero due realtà cosmopolite al punto da accettare la stranezza femminile, constato unicamente un dato di fatto.

Quindi, Raffaello percepì in lei non solo la dignità di parola e di ricerca spirituale attribuita alle donne cortesi accrescitrici di spirito. Ma anche, e soprattutto, una mente razionale, in barba a quella stessa concezione aristotelica che l’avrebbe privata dell’animo intellettivo. In quanto donna, sempre.

Il laicismo del quale è stata ammantata dalla tradizione successiva non preoccupa ovviamente Raffaello, che ha le Stanze Vaticane come obiettivo. Trovo comunque significativo il fatto che l’istituzione ecclesiastica consentisse all’epoca uno spiraglio di dissenso simile. Ingentilito dal tributo a Umanesimo e valori cortesi, che comunque denotano più una secolarizzazione dell’istituzione che altro.

Più che veicolo ideologico, mi pare molto una patina “fashion”, l’inserimento di Ipazia.

 

Alla Met Fifth Avenue omaggeranno il “Divine Draftsman and designer” Michelangelo Buonarroti.

Il Metropolitan Museum of Art dimostra, come necessario per un museo del suo calibro, un costante interesse per il Rinascimento italiano e in particolare per l’aspetto disegnativo di questo suo colossale esponente. Draftsman Michelangelo lo fu sicuramnte, prima ancora che cimentarsi nell’arte figurativa a tutto tondo rappresentata dalla pittura.

Sono annunciati per l’esposizione più di 130 disegni, tre sculture e il suo primo dipinto da aspirante artista, realizzato a quanto pare quando era appena dodicenne.

L’aspetto disegnativo di Michelangelo è in effetti iconico, non solo come storia dell’arte da qui al passato, ma anche nella percezione comune. Un tondo Doni e un Mosé, cosa possono avere in comune se non la fattezza, l’humanitas che anni di scuola dell’obbligo hanno contribuito a fissare nella nsotra memoria?

“Draft” è quindi diventato il tema dell’abilità creativa di questo artista. Una draft-star, direi!

Altro gran disegnatore italiano omaggiato nel 2003, sempre dal Met, è stato Leonardo. Chi se non lui aveva fatto del labor limae della matita un fattore altamente distintivo? Un altro autore italiano iconico, peraltro.

Ricordo il celebre cìparagone che sif aceva tra i due, raffrontando i cartoni della battaglia di Anghiari e di quella di Cascina. In quella michelangiolesca di Anghiari, i corpi contorti si avvinghiano con precisione anatomica e un moto costaante e circostanziato alla scena. Diversissima da quella Cascina col cranio dell’uomo dall’espressione disumana così evidente. A ricordarci in realtà la disumanità del realismo, stavolta non affibbiato a una classe sociale ma alla crudezza della guerra, come fatto interiore prima che come dinamica collettiva.

Fatti entrambi per essere esposti nelle sale di Palazzo Vecchio, i due cartoni non furono in realtà mai completati dagli artisti originari. Aristotile da Sangallo finisce Michelangelo, mentre Leonardo è consegnato all’umidità dell’ambiente e completamente perduto.