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Il Dizionario Filosofico fu pubblicato  anonimo nel 1764 con data di Londra, ma stampato a Ginevra, con il titolo originale “Dizionario filosofico portatile”. Un tascabile ante litteram , potremmo dire.

I bersagli

Metafisica studiata nelle scuole, assurdità della religione, abusi politici e sociali. Il ruolo dell’intellettuale nei confronti di questi temi si delinea più che mai nel Dizionario Filosofico, che per certi versi diventa anche un Prontuario all’azione, preludio forse all’engagement di natura più spiccatamente novecentesca.

Il segreto dell’efficacia sta sia nel formato tascabile, sia nel tono scherzoso con il quale vengono affrontate le tematiche bibliche.

Il sostegno all’Enciclopedia

L’opera vuole dare implicitamente sostegno all’Enciclopedia di Diderot e D’Alembert. Sebbene si sappia che il pubblico illuminato non potrà che essere minoritario, il tentativo verso la divulgazione è evidente, e a contrasto pure evidente contro l’elitismo e la massoneria dei saperi.

La prima voce, “abate”

Per iniziare sulla scorta dell’anticlericalismo, la prima è voce è nientemeno che “abate”. Il tono, decisamente ironico e parodistico. “L’abate spirituale era un povero e guidava molti altri poveri; ma i poveri padri spirituali ebbero in seguito ducento, quattrocentomila lire di rendita; e oggi in Germania ci sono dei poveri padri spirituali che hanno un reggimento di guardie!” Non è difficile intuire l’ironia ripetuta sottesa a questa iconica descrizione.

La filosofia di Voltaire è imprescindibile dall’eclettismo del suo formulatore: Voltaire aveva una passione per la società contemporanea e per i viaggi, oltre che per la politica e per le riflessioni utopistiche. La Royal Society fondata da Isaac Newton nel 1660 rappresenta per Voltaire un faro a cui ispirarsi. Indagine empirica e sperimentale, e insieme ragionamento matematico/logico, scevro da contenuti tradizionali e astratti. Soprattutto, scevro da dogmatismo.

Le lettere filosofiche

Il programma illuminista così declinato, cioé l’indagine empirica/teorica come pungolo alla creazione di cultura, è ampiamente enunciato nelle Lettere filosofiche di Voltaire. Senza, come ho già detto, grossi impeti teorici, Voltaire esprime comunque in modo semplice e chiaro un concetto che vale per i moderni come una realtà acquisita: non si prendono decisioni sull’uomo senza rivolgersi alla scienza. Le idee sono poi le stesse di Locke, Bayle, Spinoza, con la differenza che Voltaire le enuncia in tono da divulgatore, e ovviamente da pedagogo.

Imprudente e senza riguardi

Forse sulla scia di Jonathan Swift, forse per inclinazione personale, forse per attitudine teorica: Voltaire era considerato in società, per certi versi, un vero e proprio provocatore. Tra il 1726 e il 1729 fu costretto per questa sua lingua lunga a rifugiarsi in Inghilterra. Il viaggio acuì in realtà la sua tendenza alla satira, dando il sostrato reale alle sue prima solo utopistiche visioni: una terra senza pregiudizi c’era, ed era la tanto decantata Inghilterra.

L’armata degli intellettuali

Davanti ai facili personalismi e campanilismi dei filosofi, Voltaire si dispera. Come un’armata, gli intellettuali dovrebbero essere uniti per combattere il pregiudizio che tiene schiava la ragione umana.

Un’opera che ritengo utile come summa del pensiero di Voltaire è il suo noto Dizionario FIlosofico, di cui parlerò nei prossimi interventi.

E’ nel ‘700 che l’Europa divenne “una immensa repubblica di spiriti coltivati”. L’espressione è di uno dei padri dell’Illuminismo come lo conosciamo, e cioè di François Marie Arouet, in arte Voltaire.

Uno spirito non così radicale

Di Voltaire tutto si può dire fuorché che fosse incompreso. La sua grandezza era nota già ai suoi tempi, a dimostrazione del fatto che incarnasse perfettamente lo spirito di un’epoca. Se di Rousseau ammiriamo l’eloquio e il pensiero a tratti radicale, di Voltaire ammiriamo piuttosto la capacità di sintesi intellettuale dell’esistente. Fu un contestatore, e questo è innegabile, perché chi come lui prendeva a modello l’Inghilterra era parte di una èlite per certi versi avanguardista.

Perché l’Inghilterra

Perché proprio l’Inghilterra veniva presa a modella da Voltaire e dagli intellettuali suoi pari? Dopo la gloriosa rivoluzione del 1688 il principio della tolleranza era considerato quasi fondativo. La libertà d’espressione era ai suoi massimi storici, era l’epoca della nascita del giornalismo, la Chiesa esercitava una scarsa influenza. “In Inghilterra le arti sono tutte onorate e ricompensate; c’è differenza tra le varie condizioni , a tra gli uomini non c’è se non quella del merito… Vi si pensa liberalmente e nobilmente senza la remora di nessun timore servile”. 

Intanto in Francia

Grazie al prestigio internazionale di Luigi XIV, la Francia era comunque un partner commerciale e intellettuale di un certo calibro. Tuttavia l’esodo degli ugonotti generò anche una notevole propaganda anti-francese che non poteva che fomentare il giudizio di illiberalità che questa nazione si portava appresso.

Di tutto ciò Voltaire si servì appieno: se la Francia primeggiava nelle lettere, l’Inghilterra lo faceva nelle scienze e nelle innovazioni socio-politiche. Il che era un terreno fertilissimo per il giovane Francois Marie, appena uscito dal collegio gesuita e desideroso di confrontare i propri ideali con la realtà.

Nei prossimi post parlerò di alcune delle più celebri concezioni filosofiche di Voltaire.

Inizia l’autunno e iniziano gli appuntamenti di una stagione artistica-culturale che si prospetta molto interessante. Oggi voglio sponsorizzare un po’:
http://www.arte.it/notizie/italia/l-agenda-dell-arte-al-cinema-16273.

Poliedrico, eccentrico, imprevedibile: con la sua arte Lindsay Kemp ha rivoluzionato le arti del XX secolo. Edoardo Gabriellini rende omaggio alla figura del danzatore, mimo, coreografo, attore e regista britannico con un documentario che è soprattutto una lunga intervista, interrotta il 24 agosto del 2018 dalla scomparsa della star. Se dal teatro Off-Off-Broadway al cinema d’autore in vita il camaleontico Kemp non ha fatto che sorprendere, offrendo ispirazione a personaggi come David Bowie e Derek Jarman, anche dopo la morte non è avaro di colpi di colpi di scena.
“L’idea è stata quella di mischiare più linguaggi, con materiali d’archivio e non solo, che si sviluppano attorno a una lunga conversazione sul divano della casa dell’artista a Livorno. Da qui Kemp ripercorre in modo libero e intimo alcuni momenti della sua vita e della sua carriera. Uno stimolo suggestivo a saperne di più e a riscoprire l’artista”.

Morto a Livorno, Lindsay Kemp era conosciuto nel mondo del pop per i video di David Bowie, o perché fu in contatto con Nureyev e con il Cirque Nouveau. Non bisogna dimenticarsi delle collaborazioni con Kate Bush, e con Peter Gabriel.

Un documentario sulla sua vita diventa, come spesso accade per le grandi personalità artistiche, un’occasione per ripercorrere la sua fitta rete di relazioni, umane e artistiche. Non mitizziamo la persona nel ricordo, ma raccontiamo da una soggettività quella che può essere un’intera epoca.

L’arte che domina ogni cosa.

Questo, in brevissima sintesi, il commento del prolifico scrittore non appena ebbe visto l’Italia. Un viaggio di piacere, quello di Checov, al quale si fece convincere dall’amico Aleksej Suvorin, direttore del maggiore giornale conservatore di Pietroburgo “Novoje Vremia” (Tempo Nuovo) . Insieme all’Italia, la Francia. In entrambe tornerà a distanza di qualche anno, quando la sua vita professionale e la sua fama di scrittore saranno ormai decisamente affermate.

Ma per questo primo, timido viaggio all’estero, Checov rimane incantato dalle bellezze della nostra penisola. Di Venezia dice:

“Mai in vita mia ho visto città più bella di Venezia. Qui tutto è scintillio e gioia di vivere”.

L’amore per l’arte è per lui il genius loci italiano:

“A parte la bellezza dei paesaggi e la dolcezza del clima, l’Italia è l’unico paese in cui ci si senta convinti che l’arte domina davvero ogni cosa. E tale convinzione infonde coraggio”.

Inutile dire che ho immaginato il contatto di un così sensibile drammaturgo con le macchiette dei personaggi della commedia dell’Arte, come doveva essere in ambienti extra-goldoniani.

 I resti perfettamente conservati di una donna sono stati trovati agli Uffizi di Firenze nell’area di scavo adiacente all’aula di San Pier Scheraggio. Si tratta di uno scheletro rinascimentale, spiega il museo, perfettamente conservato e risalente presumibilmente alla fine del ‘400. Le spoglie sono in un punto dove un tempo c’era una chiesa, esistente prima ancora che gli Uffizi fossero edificati e ne ‘inglobassero’ gli spazi. Era un luogo di culto molto frequentato, tra l’altro anche dal sommo poeta Dante Alighieri.
    Gli scavi archeologici effettuati sotto la guida della Soprintendenza da circa 20 anni, hanno riportato alla luce una porzione dei sotterranei dell’antico edificio religioso, che, come usava nel passato, veniva anche usato come luogo di sepoltura. Lo scheletro, indicato con codice identificativo 101, verrà ora portato ai laboratori di archeoantropologia della Soprintendenza per essere sottoposto ad esami ed analisi.

(Fonte: Ansa)

Dopo quanto tempo è lecito considerare un cadavere una prova documentale? Intendiamoci, lo è già per la medicina legale, ma i miei pensieri veleggiavano più verso l’archeologia. C’è mai stato qualcuno a teorizzare il minimo tempo speso da una decomposizione per autorizzare lo scavo su di essa?

Una scheletro del 1500 è prova documentale? Studi sull’alimentazione se ne possono fare, anche se le abitudini mondane dell’epoca possiamo ben saccheggiarle al di fuori delle tombe. E poi, ai fini di quale ricerca storica interessa avere questi dettagli così approfonditi?

Mentre le donzella viene spolverata, io mi pongo questi quesiti. Chissà se uno storico dell’arte penserà mai (o avrà pensato) a legittimare il confine tra fas e nefas, in questo spaventoso e prolifico campo.

Un ISchia FIlm Festival che non si vergogna della propria italianit’, non c-[ che dire.

Il programma quest’anno è piuttosto monotono:

Arrivederci Saigon (Italia, 2018) di Wilma Labate
Bentornato Presidente(Italia, 2019) di Giancarlo Fontana e Giuseppe G. Stasi
C’è tempo (Italia, 2019) di Walter Veltroni
Copperman (Italia, 2019) di Eros Puglielli
Domani è un altro giorno (Italia, 2019) diSimone Spada
Drive me home(Italia, 2018) di Simone Catania
Lazzaro Felice (Italia, Svizzera, Francia e Germania, 2018) di Alice Rohrwacher
Ma cosa ci dice il cervello (Italia, 2019) di Riccardo Milani
Modalità aereo (Italia, 2019) di Fausto Brizzi
Moschettieri del re – La penultima missione (Italia, 2018) di Giovanni Veronesi
Non ci resta che il crimine (Italia, 2019) di Massimiliano Bruno
La paranza dei bambini(Italia, 2019) di Claudio Giovannesi
Ride(Italia, 2018) di Valerio Mastandrea
Sembra mio figlio (Italia, 2018) di Costanza Quatriglio
Sulla mia pelle (Italia, 2018) di Alessio Cremonini
L’uomo che comprò la luna (Italia, 2019) di Paolo Zucca
Il viaggio di Yao (Francia e Senegal, 2018) di Philippe Godeau
Il vizio della speranza(Italia, 2018) di Edoardo De Angelis
 

Le date del festival sono dal 29 giugno al 6 luglio.

Non vorrei essere profetico, ma ora che rileggo il mio precedente intervento, a giochi fatti quella “ricerca spasmodica del cinema drammatico e sociale ad ogni costo” sembra più che mai reale.

Il film vincitore di questa edizione è stato “Parasite” di Bong Joon-ho, regista coreano contemporaneo che già nel 2017 aveva scatenato non pochi pruriti sempre al festival, con il suo ” Okja”.

Ma andiamo con ordine, il regista si può dire che abbia attirato il faro dell’opinione pubblica con il suo socialissimo “Snowpiercer”. Un thriller fantascientifico, un treno bloccato nel ghiaccio nel quale convivono gli appartenenti a classi sociali diverse, con diversi privilegi. IL gioco della rivolta degli inferiori è rappresentato con le tinte incalzanti della fantascienza.

Le tinte diventano non meno labili ma più fiabesche in “Okja”. Okja è una satira sociale in piena regola, che non manca di staffilare il marketing e le logiche della grande distribuzione, non meno che l’animalismo più becero. Da questo film in poi ho il mondo cinefilo ha iniziato a guardare il regista coreano con qualche grammo di interesse in più: un conto è il film distopico, molto alla moda e quasi abusato da teen movie sull’onda di Hunger Games. Ma qui non siamo in un teen movie, sicuramente, e nemmeno nel tono naif e pregnante del cinema d’animazione di Myazaki. Pure molto di moda, peraltro.

Okja sta nel mezzo, con la sua forte carica di esplicita satira sociale.

“Parasite” è la versione scremata dal contesto, possiamo dire, di questo interesse del regista per la classe sociale, che inizia con la fantascienza di Snowpiercer e prosegue nell’animalismo. Parasite è una storia di riscatto vero e proprio, ma con una punta di thriller. Diciamo che l’aspetto sociale è decisamente quello più riuscito, e quello che ha più incantato la giuria occidentale e affascinata dall’occhio critico di un degno esponente di un PAese emergente. Inutile dirlo: Paese con contraddizioni sociali eclatanti.

Ho trovato una tabellina relativa all’anno 2013. La tabellina compara l’IVA applicata sui beni di consumo, e quella applicata sulla stampa. Questo in diversi Paesi europei, il che ci dà uno sguardo d’insieme sulla questione:

(Fonte)

Parliamo di 6 anni trascorsi dal 2013, quindi è chiaro che non è mia intenzione fare un’analisi comparativa attuale. Però questa disparità, tra una Norvegia con l’IVA al 25%, che sgrava completamente l’editoria, e l’Austria che la dimezza soltanto, è abbastanza evidente. Potremmo dire che come l’Italia molti altri Stati si comportano nei confronti dell’editoria più come finanziatori indiretti che diretti.

Dei Paesi sovra-citati 10 applicano anche sussidi diretti, sempre secondo la relazione del briefing che ho preso in considerazione. 8 invece non li applicano.

E’ interessante vedere in questo articolo quanti Paesi applichino il supporto selettivo all’editoria. Quello che ho descritto altrove come spinoso problema, è percepito ovviamente come tale non solo dall’Italia.

Ora che abbiamo visto come l’Italia non sia troppo discosta da una media piuttosto variegata, vorrei aggiungere proprio due battute sulla selettività di contenuto. Innanzi tutto, invocare la censura di Stato è fuori luogo. Ma anche, elargire prebende.

Ho espresso in questi tre interventi il quadro logico che grossomodo mi sono fatto in merito alla questione. Spero che la mia decisione di semplificazione massima serva a chi ancora non conosceva il problema, e ora forse lo vede.

Alla prossima!

Nel mio precedente articolo sul finanziamento diretto all’editoria mi sono accorto di aver citato un paio di giornali che ne usufruiscono. Non voglio venir meno al principio di imparzialità, questo va precisato, ma mi hanno fatto notare che citare due esempi come se fossero estremi lascia comunque sottintendere una maniera partigiana di intendere la realtà. Relata refero, comunque, e questo serva a ulteriore prova della mia assoluta buona fede: lungi da me il contrapporre filosoficamente i due poli della linea editoriale di Libero e del Manifesto, nati in epoche diverse, con redazioni diverse e scelte di linea anche variegate, al loro interno.

Credo però realisticamente che ogni effetto di un processo possa essere confrontato con un altro. Banalmente, essendo entrambe testate giornalistiche registrate, penso che sia corretto porle su un piano comparativo, mantenendo come criterio il non eccedere con la ricerc di similitudini o differenze, mantenendo nell’analisi la specificità di entrambe.

Comunque: parlando di giornalismo, non credo che nessuno possa rammaricarsi del pluralismo dell’informazione. Non credo che esista qualcuno che auspichi una sola forma di approvvigionamento della conoscenza. Chiaramente, si parla qui di una forma di conoscenza, e di notizia, più strutturata e verificata, a differenza di quelle che si reperiscono in rete o grazie al passaparola. Essendo una notizia strutturata, possiamo quindi aspettarci che per vincere la concorrenza della notizia immediata serva un aiutino da parte del pubblico, quantomeno adeguato al numero di copie vendute.

Che ciò avvenga in termini di finanziamenti diretti o indiretti, poco ci cambia. Poco ci cambia anche la motivazione politica per la quale un Ministero dell’Economia cali la scure su un settore piuttosto che su di un altro. Il fatto è solo da constatare. Come da constatare è il calo di un settore che aveva rappresentato per molti un caposaldo della ricerca di informazioni. Radiogiornali e giornali cartacei sono in crisi, è attestato, e dovranno ristrutturarsi in senso semiotico e aziendale prima ancora che puntare sull’appiattimento dello scimmiottamento dell’online. Ma dovranno anche imparare, e lo dico in un certo senso a malincuore, a fare a meno del contributo statale diretto.

Molti sono gli articoli che comparano la situazione di altri Stati europei a quella dell’Italia. Vediamoli.