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Il paradosso di Simpson è un fenomeno statistico, come dice il nome “para-doxa”, dal greco antico “contro l’opinione comune”.

Insomma, il paradosso di Simpson è per sua stessa natura controintuitivo. Vorrei provare a spiegare in termini divulgativi in cosa consiste.

Definizione del paradosso

Il paradosso di Simpson si verifica quando una tendenza osservata in diversi gruppi separati si inverte quando i dati vengono combinati. 

Questo paradosso mette in evidenza l’importanza di analizzare i dati nel contesto e di essere cauti nel trarre conclusioni senza comprendere come sono suddivisi i gruppi.

Esempio

Per capire meglio, supponiamo di confrontare il tasso di successo di due trattamenti medici, il trattamento A e il trattamento B, su due gruppi di pazienti, maschi e femmine.

 

Dopo aver condotto lo studio, scopriamo che tra gli uomini, il trattamento A ha un tasso di successo del 90%, mentre il trattamento B ha solo un 80% di successo. Invece tra le donne il trattamento A ha un tasso di successo del 70%, mentre il trattamento B ha un 60% di successo.

Quindi, sia tra gli uomini che tra le donne, il trattamento A sembra essere più efficace di B. Tuttavia, quando combiniamo i dati di uomini e donne, possiamo notare che il trattamento B complessivamente sembra avere un tasso di successo maggiore del trattamento A. Questo è il paradosso di Simpson: una tendenza che esiste in ciascun gruppo separato si inverte quando i dati sono combinati.

Come si verifica il paradosso di Simpson

Il paradosso di Simpson si verifica a causa della distribuzione disuguale dei dati tra i gruppi. Nell’esempio precedente, potrebbe accadere che molte più persone abbiano ricevuto il trattamento A tra le donne, che hanno un tasso di successo inferiore, e che la maggioranza degli uomini (con un tasso di successo superiore) abbia ricevuto il trattamento B. Questa distribuzione sbilanciata può influenzare il risultato aggregato, facendo apparire il trattamento B complessivamente migliore, anche se nei singoli gruppi (uomini e donne) il trattamento A è più efficace.

Quindi, siamo di fronte a una contraddizione? A una crisi del buon senso?

No, assolutamente.

Basta considerare sempre le distribuzioni di dati tra i gruppi e il modo in cui possono influenzare i risultati, considerando la possibilità del paradosso.

Come evitare il paradosso di Simpson

In una frase, si potrebbe rispondere: facendo domande. Per evitare di cadere nel paradosso di Simpson, è fondamentale analizzare i dati in modo approfondito, valutando le relazioni non solo nei dati aggregati, ma anche nei sottogruppi. 

La correlazione non implica necessariamente una relazione causale. Anche se una correlazione appare chiara nei dati aggregati, potrebbe esserci una spiegazione più complessa nei sottogruppi.

 

Il contesto, baby, il contesto!

Le distribuzioni non normali sono quelle distribuzioni di probabilità che non seguono la forma classica a campana, tipica della distribuzione normale o gaussiana. 

Ricapitolo per chi non avesse letto l’altro mio articoletto in merito: la distribuzione normale è quella in cui i dati si concentrano attorno alla media, e man mano che ci si allontana, i valori diventano meno frequenti. 

Una nozione tecnica da aggiungere al nostro bagaglio di aspiranti esperti di finanza e/o statistica è che esistono molte altre distribuzioni che si comportano diversamente e vengono usate per descrivere situazioni in cui i dati non seguono questo schema.

Scopriamo la distribuzione uniforme

Ad esempio, la distribuzione uniforme è una di quelle non normali. Qui tutti i risultati possibili hanno la stessa probabilità di verificarsi. Immagina di lanciare un dado: ogni numero da 1 a 6 ha esattamente la stessa probabilità di uscire. 

Non c’è un valore più probabile rispetto agli altri, quindi i dati non si concentrano in un punto centrale, ma sono distribuiti in modo “piatto”, senza picchi.

Distribuzione esponenziale

Poi c’è la distribuzione esponenziale, che è molto utile per calcolare il tempo di attesa a uno sportello. Questa distribuzione è asimmetrica: i valori bassi sono più frequenti e c’è una lunga coda a destra.

Piccola parentesi: quando si parla di una “coda lunga verso destra” in statistica, ci si riferisce alla forma di una distribuzione asimmetrica in cui i valori estremi (molto grandi) sono meno frequenti, ma si estendono oltre il valore centrale. 

In una distribuzione di questo tipo, la maggior parte dei dati si trova concentrata verso sinistra, vicino a valori più piccoli o alla media, mentre pochi valori molto più grandi si allontanano e formano la “coda” a destra.

 

Tornando alla distribuzione esponenziale e all’esempio del tempo d’attesa: spesso capita che il tempo di attesa sia breve, ma ogni tanto c’è qualcuno che aspetta molto più a lungo.

Poisson

La distribuzione di Poisson è un’altra distribuzione non normale. Si usa per contare quante volte accade un certo evento in un periodo di tempo fisso, come il numero di telefonate ricevute in un’ora o gli incidenti stradali in un giorno. Questa distribuzione è utile quando gli eventi sono relativamente rari, e anche qui i dati sono asimmetrici, con una coda verso destra.

Binomiale

Com’è la distribuzione dei risultati del lancio di una moneta? 

Per rispondere bisogna scomodare la distribuzione binomiale. La distribuzione binomiale dice come si distribuiscono testa e croce in 10 lanci di moneta, ad esempio. Anche se per molti lanci la distribuzione può sembrare simmetrica, non è perfettamente normale.

Chi quadrato

Un altro esempio interessante è la distribuzione chi quadrato, spesso usata per testare ipotesi in statistica. È una distribuzione molto usata quando si vuole verificare se c’è una differenza significativa tra i dati osservati e quelli attesi in un certo esperimento – ma magari ne parlerò meglio in un prossimo articoletto.

Log normale: ottima per le azioni!

La distribuzione log-normale, invece, si usa quando i dati possono assumere solo valori positivi. Un esempio comune è il prezzo delle azioni, che non può scendere sotto zero. Questa distribuzione è molto asimmetrica, con una coda lunga a destra, il che significa che ogni tanto ci sono valori molto più grandi rispetto alla media.

Pareto

Un’altra distribuzione molto conosciuta è la distribuzione di Pareto, famosa per descrivere situazioni come la distribuzione della ricchezza: una piccola parte della popolazione possiede la maggior parte delle risorse. Anche qui i dati si concentrano sui valori più piccoli, con una lunga coda verso destra.

Altre

Ovviamente non ho potuto mappare tutto, anche perché non sono uno statista e non vorrei entrare troppo nel dettaglio, rischiando di fare consistenti scivoloni.

Accenno solo in conclusione al fatto che ci sono distribuzioni come la t di Student e la distribuzione di Cauchy, che differiscono dalla normale per via delle loro “code più pesanti”. La distribuzione t di Student, ad esempio, è simile alla normale, ma viene usata quando il campione di dati è piccolo, perché prevede un maggior numero di valori estremi rispetto alla normale.

In generale, tutte queste distribuzioni non seguono il tipico schema della distribuzione normale, e ciascuna è utile in contesti specifici. La distribuzione normale è un buon modello quando i dati si concentrano attorno alla media, ma ci sono molti fenomeni reali che richiedono altri tipi di distribuzione per essere descritti accuratamente.



La deviazione standard è un concetto statistico che misura quanto i dati di un insieme sono distribuiti rispetto alla media. 

In altre parole, indica quanto i valori di un gruppo di dati si discostano in media dal valore centrale, cioè dalla media stessa.

Esempio pratico di deviazione standard

Supponiamo che tu stia analizzando le altezze di un gruppo di persone. 

La media delle altezze rappresenta il valore “centrale” del gruppo, cioè l’altezza media di tutte le persone. 

Ma, ovviamente, non tutti avranno esattamente quell’altezza. 

Alcune persone saranno più alte, altre più basse. 

La deviazione standard dice quanto ogni persona si allontana in media dall’altezza media (scusate il bisticcio).

Se la deviazione standard è piccola, significa che la maggior parte delle persone ha un’altezza vicina alla media: in altre parole, c’è poca variazione tra le altezze, e quasi tutti hanno più o meno la stessa altezza. Al contrario, se la deviazione standard è grande, significa che c’è molta variazione nelle altezze: alcune persone sono molto più alte della media, altre molto più basse, e i dati sono quindi più “sparpagliati”.

Un altro modo semplice di pensarlo è immaginare un gruppo di studenti che fanno un test. Se tutti gli studenti ottengono punteggi molto vicini alla media del gruppo, la deviazione standard sarà bassa, perché non c’è molta differenza tra i punteggi. Se invece alcuni studenti ottengono voti molto alti e altri molto bassi, allora la deviazione standard sarà alta, indicando che c’è molta variabilità tra i punteggi.

La deviazione standard è utile perché, oltre a dirci quale sia il valore medio (la media), ci fornisce un’indicazione di quanto variazione c’è nei dati. Senza di essa, sapere solo la media di un insieme di dati può essere fuorviante. Ad esempio, se diciamo che la temperatura media in due città è di 20°C, senza sapere la deviazione standard non possiamo capire se le temperature in quelle città sono relativamente costanti o se variano molto nel corso della giornata (ad esempio da 10°C a 30°C). Una deviazione standard più alta ci indicherebbe che in una delle città le temperature fluttuano molto di più rispetto all’altra.

A cosa ci serve la deviazione standard?

In sintesi: la deviazione standard ci lascia conoscere il valore centrale dei dati. In più, ci fa anche capire quanto quei dati siano variabili rispetto alla media.

Robert Putnam, un rinomato politologo e sociologo americano, ha portato il concetto di capitale sociale al centro del dibattito accademico e pubblico con la sua influente opera, in particolare con il libro “Bowling Alone: The Collapse and Revival of American Community”. Putnam definisce il capitale sociale come le caratteristiche della vita sociale – reti, norme e fiducia – che consentono ai partecipanti di agire insieme in modo più efficace per perseguire obiettivi comuni. Secondo Putnam, il capitale sociale è fondamentale per la salute delle democrazie moderne e per il benessere delle comunità.

Attenzione alle differenze: capitale sociale non significa “contatto utile”

Putnam distingue due forme di capitale sociale: il capitale sociale di legame e il capitale sociale di ponte, il cosiddetto contatto utile, le “connessioni giuste”. Il capitale sociale di legame si riferisce alle connessioni strette e personali che si formano tra individui con esperienze e background simili, come familiari e amici stretti. Questo tipo di capitale sociale può fornire un supporto emotivo e materiale significativo, ma tende a essere meno efficace nel creare legami tra diversi gruppi sociali.

D’altra parte, il capitale sociale di ponte coinvolge relazioni più ampie e meno intime, che collegano individui di diverse origini sociali, economiche ed etniche. Questo tipo di capitale sociale è essenziale per la costruzione di una società coesa e inclusiva, poiché facilita la cooperazione tra diversi segmenti della popolazione. Putnam sottolinea che entrambe le forme di capitale sociale sono necessarie: il capitale sociale di legame costruisce la solidarietà interna, mentre il capitale sociale di ponte promuove l’integrazione e la coesione sociale.

Il caso Stati Uniti

Uno dei principali contributi di Putnam è la sua documentazione del declino del capitale sociale negli Stati Uniti dalla metà del XX secolo. Egli utilizza una vasta gamma di dati, tra cui la partecipazione a organizzazioni civiche, religiose e sociali, il volontariato, la partecipazione politica e altre forme di impegno comunitario, per mostrare come gli americani siano diventati progressivamente meno connessi tra loro.

Putnam attribuisce questo declino a diversi fattori, tra cui l’aumento del tempo dedicato al lavoro, il cambiamento delle strutture familiari, la suburbanizzazione, e l’influenza dei media elettronici, in particolare la televisione. Il calo del capitale sociale, secondo Putnam, ha conseguenze significative per la società, riducendo la capacità delle comunità di risolvere problemi collettivi, di sostenere istituzioni democratiche e di promuovere la fiducia e la cooperazione tra i cittadini.

Fidarsi è bene (sempre!)

Un elemento centrale della teoria del capitale sociale di Putnam è la fiducia. Egli sostiene che la fiducia tra i membri di una comunità è un componente cruciale del capitale sociale e che le reti di fiducia facilitano la cooperazione e l’azione collettiva. La fiducia può essere intesa sia come fiducia interpersonale, ovvero la fiducia che le persone hanno nelle altre persone, sia come fiducia istituzionale, ovvero la fiducia nelle istituzioni e nelle organizzazioni.

Putnam evidenzia come alti livelli di fiducia interpersonale siano associati a una serie di esiti positivi, tra cui una maggiore partecipazione civica, una migliore salute pubblica e una minore criminalità. Le comunità con alti livelli di capitale sociale tendono a essere più prospere e resilienti, poiché la fiducia facilita la cooperazione.

Una piccola lezione che forse dovremmo ricordarci più spesso!

Mi è capitato qualche giorno fa di sentire il termine “Bell’s curve”. Chiunque si sia minimamente occupato di statistica conosce il termine, e lo riferisce alla distribuzione normale. Però, anche se i due concetti sono gli stessi, vorrei evitarvi figuracce… 

Si dice distribuzione normale o Bell’s curve?

Il termine “distribuzione normale” o “gaussiana” proviene dalla matematica e dalla statistica ed è usato per descrivere una distribuzione di probabilità continua che mostra come i valori di una variabile casuale si distribuiscono attorno a una media. Questa distribuzione è chiamata “gaussiana” in onore del matematico tedesco Carl Friedrich Gauss, che ne formalizzò i principi.

Una delle principali caratteristiche della distribuzione normale è che la maggior parte dei valori si concentra attorno alla media, e man mano che ci si allontana da essa, le probabilità di trovare altri valori diminuiscono progressivamente. 

Se disegnassimo un grafico della distribuzione normale, otterremmo una curva simmetrica e liscia che parte dal basso, si innalza verso un picco centrale, per poi ridiscendere su entrambi i lati, assumendo una forma molto simile a una campana. 

È proprio questa forma che ha dato origine al termine colloquiale “curva a campana”, utilizzato per descrivere visivamente la distribuzione.

I concetti di media e deviazione standard

Dal punto di vista matematico, la distribuzione normale è definita da una funzione precisa in cui entrano in gioco due parametri fondamentali: la media e la deviazione standard. La media rappresenta il valore centrale attorno al quale sono distribuiti i dati, mentre la deviazione standard misura quanto i dati si disperdono intorno a quella media. 

La distribuzione normale ha alcune proprietà uniche.

In primis è simmetrica, il che significa che i dati si distribuiscono uniformemente a destra e a sinistra della media; e la media, la mediana e la moda coincidono, il che rende questa distribuzione particolarmente equilibrata.

Regola 68-95-99.7

Un aspetto molto importante della distribuzione normale è la cosiddetta regola empirica o regola 68-95-99.7. 

Questa regola descrive quanto sono distribuiti i dati rispetto alla media: il 68% dei dati si trova entro una deviazione standard dalla media, il 95% entro due deviazioni standard e il 99,7% entro tre. 

In parole povere: in una distribuzione normale, quasi tutti i valori saranno vicini alla media e sarà molto raro trovare valori estremi.

Sebbene i concetti di distribuzione normale e curva a campana siano praticamente sinonimi, la terminologia varia a seconda del contesto. 

In ambito accademico o statistico si preferisce parlare di distribuzione normale o gaussiana, poiché descrivono con precisione la struttura matematica di questa distribuzione. 

Insomma… Quale termine conviene usare in una conversazione?

Mio consiglio: usate il termine “distribuzione normale” solo se ne conoscete le regole e se siete abbastanza ferrati da rispondere a un contraddittorio.

Il termine Bell’s Curve è comunque corretto, ma farà intendere che lo usate in maniera più “pop”.

Fate vobis!

Il Concetto di Capitale Sociale: Origine e Definizione

Il capitale sociale è un concetto fondamentale nelle scienze sociali, che si riferisce alle risorse derivanti dalle relazioni sociali e alle reti di contatti che un individuo o una comunità può mobilitare per ottenere benefici. Questo termine è stato esplorato e definito da vari filosofi, sociologi e antropologi nel corso del tempo. Tra i primi ad utilizzare il concetto di capitale sociale vi fu Pierre Bourdieu, che lo descrisse come l’insieme delle risorse attuali o potenziali legate al possesso di una rete durevole di relazioni più o meno istituzionalizzate di conoscenza e riconoscimento reciproco. Bourdieu sottolineava come il capitale sociale non fosse solo una questione di conoscenze, ma anche di riconoscimento e legittimità all’interno di una rete sociale.

Un altro importante contributo alla teoria del capitale sociale proviene da James Coleman, che lo ha considerato come una forma di capitale che esiste nelle relazioni tra persone. Coleman ha evidenziato l’importanza delle norme, delle sanzioni e della fiducia nella creazione del capitale sociale, sostenendo che questi elementi sono fondamentali per facilitare la cooperazione e il coordinamento all’interno delle reti sociali. In questo senso, il capitale sociale può essere visto come un bene pubblico che beneficia non solo gli individui che ne fanno parte, ma anche l’intera comunità.

L’Importanza del Capitale Sociale nelle Comunità

Il capitale sociale svolge un ruolo cruciale nel funzionamento delle comunità, influenzando vari aspetti della vita sociale, economica e politica. Robert Putnam, un altro studioso chiave in questo campo, ha esplorato come il capitale sociale influenzi la partecipazione civica e la qualità della vita nelle comunità. Nel suo libro “Bowling Alone”, Putnam ha documentato il declino del capitale sociale negli Stati Uniti, osservando una diminuzione nella partecipazione ad attività collettive e un calo della fiducia reciproca tra i cittadini. Egli ha sostenuto che un alto livello di capitale sociale è associato a una serie di benefici, tra cui una maggiore partecipazione civica, migliori risultati scolastici, minore criminalità e una salute pubblica migliore.

Il capitale sociale è anche fondamentale per lo sviluppo economico delle comunità. Studi hanno dimostrato che le reti sociali e le relazioni di fiducia possono facilitare lo scambio di informazioni, ridurre i costi di transazione e promuovere la cooperazione economica. Questo è particolarmente evidente nelle economie locali e nelle comunità rurali, dove le reti di relazioni personali possono compensare la mancanza di infrastrutture formali e di risorse istituzionali. Inoltre, il capitale sociale può giocare un ruolo importante nella resilienza delle comunità, aiutandole a superare crisi economiche e sociali attraverso la mobilitazione delle risorse interne e il supporto reciproco.

Critiche e Sfide del Capitale Sociale

Il concetto di capitale sociale non è stato esente da critiche. Il capitale sociale può avere effetti negativi, soprattutto quando è esclusivo o concentrato in gruppi chiusi. Ad esempio, i network sociali possono rafforzare le disuguaglianze esistenti e perpetuare il potere di gruppi dominanti, escludendo quelli che non fanno parte della rete. In questo contesto, il capitale sociale può diventare uno strumento di controllo sociale e di esclusione, piuttosto che di inclusione e coesione.

Un’altra critica riguarda la misurazione del capitale sociale. A differenza di altre forme di capitale, come quello economico o umano, il capitale sociale è difficile da quantificare e valutare. La sua natura intangibile e complessa rende difficile sviluppare indicatori affidabili e comparabili. Questa sfida è stata affrontata da vari studiosi attraverso l’uso di diverse metodologie, tra cui indagini, osservazioni etnografiche e analisi di rete, ma il dibattito su come misurare il capitale sociale continua.

Ve lo chiedo con il cuore in mano: investite, va bene, fatelo. Ma con cognizione.

Mi è capitato di recente di chiacchierare con una persona molto giovane che aveva iniziato ad interessarsi di finanza, e vista la mia ormai veneranda età ha chiesto qualche consiglio.

Quello che ho fatto io in una sorta di terapia shock è stato mostrare questo dato:

Europa:

  • FTSE MIB (Italia): +1,23%
  • CAC 40 (Francia): +1,05%
  • DAX (Germania): +0,98%
  • IBEX 35 (Spagna): +0,87%

America:

  • S&P 500 (USA): +0,75%
  • Dow Jones Industrial Average (USA): +0,68%
  • Nasdaq Composite (USA): +0,59%
  • Bovespa (Brasile): +0,42%

Asia:

  • Nikkei 225 (Giappone): +0,31%
  • Hang Seng (Hong Kong): +0,25%
  • Kospi (Corea del Sud): +0,18%
  • Sensex (India): +0,12%

A quel punto ho chiesto a questa persona che informazioni trasse da questi dati, soprattutto in termini di performance.

Non me ne voglia la persona, se mi sta leggendo: è normalissimo per chi è alle prime armi non capire ancora come interpretare questi dati.

Ma bisogna averli ben chiari in mente prima di qualsiasi anche solo velleità di investimento “vero”.

Gli indici – cose da sapere assolutamente

Primo assunto: le performance passate non sono indicative delle performance future.

Poi, come ho detto in tante, tantissime occasioni: è importante diversificare il proprio portafoglio.

Ora, vediamo almeno una descrizione base dei singoli indici.

Gli indici sono importanti perché forniscono un’istantanea delle performance di un determinato mercato o settore. Sono utilizzati da investitori, analisti e media per monitorare l’andamento delle economie e dei mercati finanziari.

Storia e spiegazione dei principali indici finanziari

Indici Europei

  • FTSE MIB (Italia): Creato nel 1983, è l’indice principale della Borsa Italiana. Include i 40 titoli più liquidi e capitalizzati del mercato italiano.
  • CAC 40 (Francia): Creato nel 1987, è l’indice principale della Borsa di Parigi. Include i 40 titoli più capitalizzati del mercato francese.
  • DAX (Germania): Creato nel 1988, è l’indice principale della Borsa di Francoforte. Include i 30 titoli più capitalizzati del mercato tedesco.
  • IBEX 35 (Spagna): Creato nel 1987, è l’indice principale della Borsa di Madrid. Include i 35 titoli più liquidi e capitalizzati del mercato spagnolo.

Indici Americani

  • S&P 500 (USA): Creato nel 1957, è uno degli indici più importanti del mondo. Include i 500 titoli più capitalizzati del mercato azionario americano.
  • Dow Jones Industrial Average (USA): Creato nel 1896, è il più antico indice azionario americano. Include i 30 titoli più importanti del mercato americano.
  • Nasdaq Composite (USA): Creato nel 1971, è l’indice principale del Nasdaq Stock Market. Include tutti i titoli quotati al Nasdaq.
  • Bovespa (Brasile): Creato nel 1968, è l’indice principale della Borsa di San Paolo. Include i titoli più liquidi e capitalizzati del mercato brasiliano.

Indici Asiatici

  • Nikkei 225 (Giappone): Creato nel 1949, è l’indice principale della Borsa di Tokyo. Include i 225 titoli più capitalizzati del mercato giapponese.
  • Hang Seng (Hong Kong): Creato nel 1969, è l’indice principale della Borsa di Hong Kong. Include i 50 titoli più capitalizzati del mercato di Hong Kong.
  • Kospi (Corea del Sud): Creato nel 1983, è l’indice principale della Borsa di Seul. Include i 200 titoli più capitalizzati del mercato coreano.
  • Sensex (India): Creato nel 1986, è l’indice principale della Borsa di Bombay. Include i 30 titoli più capitalizzati del mercato indiano.

Come funzionano gli indici

Gli indici finanziari sono calcolati utilizzando diverse metodologie, come la capitalizzazione ponderata, secondo la quale i titoli con la capitalizzazione di mercato più alta hanno un peso maggiore nell’indice.

C’è anche l’indice ponderato sui prezzi, dove i titoli con il prezzo più alto hanno un peso maggiore nell’indice.

Sembra facile?

Forse.

Ma non lo è affatto.

Quindi, continua a studiare, o meglio trova un consulente finanziario che ti sappia affiancare in queste decisioni, che vanno ponderate con una scelta accuratezza, dato che in fondo è dei tuoi risparmi che si parla.

La Cappadocia è una regione situata al centro dell’Anatolia, in Turchia, nota per i suoi paesaggi unici, le sue città sotterranee e le sue case scavate nella roccia. L’origine del nome “Cappadocia” si pensa derivi dal termine persiano “Katpatuka”, che significa “terra dei cavalli belli”, a testimoniare l’importanza della regione come centro di allevamento di cavalli fin dai tempi antichi. La sua posizione geografica, situata su importanti rotte commerciali, ha reso la Cappadocia un crocevia di culture, commerci e influenze tra l’Est e l’Ovest.

La Cappadocia durante la Preistoria

Nel periodo preistorico, la regione era abitata da popoli indigeni che lasciarono le prime tracce di insediamenti. Furono gli Ittiti a colonizzare per la prima volta con insediamenti stabili la Cappadocia, nel II millennio a.C.

Dopo il declino degli Ittiti, l’ascesa dei Persiani, e la Cappadocia venne annessa al vasto Impero Achemenide. Con la conquista di Alessandro Magno divenne regno ellenistico, per poi passare sotto il controllo romano. Durante il periodo romano e bizantino, la Cappadocia acquisì grande importanza come centro religioso e monastico, come testimoniano le splendide chiese rupestri decorate con affreschi bizantini.

Geografia della Cappadocia

La Cappadocia è caratterizzata da formazioni rocciose dette “camini delle fate”, è il risultato di processi vulcanici seguiti da erosioni. Questo paesaggio lunare non solo ha affascinato viaggiatori e conquistatori ma ha anche offerto rifugio e protezione agli abitanti locali nel corso dei secoli. Le città sotterranee, come quella di Derinkuyu, potevano ospitare migliaia di persone ed erano dei perfetti rifugi in tempi di invasioni.

Le invasioni turche e mongole e il post

Durante il periodo medievale la regione fu testimone di invasioni da parte di Selgiuchidi e Mongoli, finché non fu annessa all’Impero Ottomano. Sotto il dominio ottomano la Cappadocia continuò a essere un importante centro di commercio e cultura, cosa che è valsa fino ad oggi.

A chi non è mai capitato di intavolare un dibattito fervente su quale sia il confine oltre il quale si scavalla nel disturbo mentale?

Il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, Quinta Edizione (DSM-5), rappresenta il punto di riferimento più autorevole e ampiamente utilizzato per la classificazione e la diagnosi dei disturbi mentali. 

Cos’è il DSM-5

Pubblicato per la prima volta nel 1952 dall’American Psychiatric Association (APA), il DSM ha subito numerose revisioni, con l’ultima, la quinta edizione, pubblicata nel 2013. Lo usano psichiatri, psicologi, assistenti sociali e altri professionisti della salute, dato che fornisce una lingua comune e criteri standardizzati per la diagnosi dei disturbi mentali.

Sebbene non sia obbligatorio, viene comunque considerato l’unità di misura per tutti i professionisti che ho elencato sopra.

Il DSM-5 è il risultato di oltre una decade di lavoro preparatorio, ricerche e ampie consultazioni con esperti nel campo della psichiatria e della psicologia. Il processo di revisione ha incluso una riconsiderazione completa delle categorie diagnostiche esistenti, l’aggiunta di nuove diagnosi e la modifica dei criteri diagnostici per riflettere meglio la comprensione attuale della salute mentale. 

Tra le modifiche più importanti rispetto al passato abbiamo la ristrutturazione delle categorie diagnostiche per riflettere meglio un continuum di disturbi, piuttosto che classi distinte, evidenziando così la natura spesso sfumata dei disturbi mentali.

Il DSM-5 copre un ampio spettro di disturbi mentali, suddivisi in categorie che includono disturbi d’ansia, disturbi dell’umore, disturbi psicotici, disturbi alimentari, disturbi della personalità e molti altri. Per ogni disturbo, il manuale fornisce un insieme di criteri diagnostici che devono essere soddisfatti, insieme a note descrittive e linee guida per aiutare i clinici a fare diagnosi accurate. Inoltre, il DSM-5 introduce il concetto di dimensioni e gradi di severità per alcuni disturbi, consentendo ai clinici di valutare la gravità e il livello di disfunzione del disturbo.

Disturbi maggiori e minori

Un’altra novità importante del DSM-5 è l’introduzione dei Disturbi Neurocognitivi Maggiori e Minori. Questa distinzione ha molto senso perché tiene conto dell’impatto delle condizioni neurologiche sul funzionamento cognitivo e comportamentale. Neurologia e psichiatria sono spesso strettamente connesse e i sintomi cognitivi vanno spesso valutati nell’ambito dei disturbi mentali.

Il DSM-5 ha anche affrontato la questione del sovradiagnosi e del sovratrattamento di alcuni disturbi, in particolare nei bambini. Ad esempio, è stata introdotta una nuova diagnosi di “Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività (ADHD) nell’adulto”, riconoscendo che l’ADHD può persistere nell’età adulta e che i criteri diagnostici devono essere adattati per riflettere le manifestazioni del disturbo in questa popolazione.

Critiche più comuni

Nonostante la sua ampia accettazione e utilizzo, il DSM-5 non è esente da critiche. Alcuni professionisti del settore hanno sollevato preoccupazioni riguardo alla patologizzazione di comportamenti e condizioni normali, ai conflitti di interesse tra gli autori del manuale e l’industria farmaceutica, e alla mancanza di sufficiente base empirica per alcuni dei nuovi disturbi e criteri diagnostici introdotti.

Come sempre, la scienza è in fieri. Per il momento, la tappa più avanzata e collettivamente condivisa a cui siamo arrivati è questa.

Che tu sia una giovane promessa o un habitué di grossi investimenti, la finanza può risultare ostica. Capire i concetti semplici non è impossibile, ma capirli a fondo, e trovarsi nella corrispondenza d’amorosi sensi giusta per iniziare a prendersi dei rischi, è ben più diverso.

Per iniziare ad investire in Italia oggi è necessario seguire alcuni passaggi ineliminabili.

Innanzitutto, per chi è proprio digiuno, aggiungo che dotarsi di un broker è indispensabile per operare sui mercati finanziari. 

Ma anche se si è già scelto il proprio intermediario bancario, acquisire una buona educazione finanziaria è fondamentale. 

Questo include comprendere i principi degli investimenti, i vari strumenti finanziari disponibili e i rischi associati. Una volta acquisita una base solida, è importante definire gli obiettivi finanziari personali a breve, medio e lungo termine e valutare la propria tolleranza al rischio

Non tutti vogliono rischiare con la propria finanza personale.

Ecco perché solo un’attenta ponderazione del rischio che sei disposto a correre potrai scegliere gli strumenti di investimento più adatti.

Il broker

La scelta di un broker è un passo cruciale nel processo di investimento. In Italia, sia le piattaforme di trading online che le banche offrono servizi di brokerage, consentendo l’accesso ai mercati finanziari. La selezione di un broker dovrebbe basarsi su diversi fattori, tra cui le commissioni e i costi di transazione, l’usabilità della piattaforma, l’affidabilità e la sicurezza, la qualità del servizio clienti e la disponibilità di strumenti di analisi e formazione.

Una volta selezionato il broker, si procede con l’apertura di un conto di trading, fornendo la documentazione necessaria per l’identificazione e accettando i termini di servizio. Il passo successivo è il deposito dei fondi nel conto, che permette di iniziare ad acquistare titoli. La pianificazione di una strategia di investimento è fondamentale, decidendo se adottare un approccio attivo, selezionando personalmente i titoli, o passivo, puntando su fondi indicizzati o ETF per replicare l’andamento di un indice di mercato.

Come iniziare (concretamente)

Mi rivolgo a chi si sente particolarmente spavaldo e opta per il fai-da-te: l’acquisto avviene tramite la piattaforma del broker, dove è possibile selezionare gli investimenti e piazzare ordini al mercato o limitati a un prezzo specifico. Il mio consiglio molto molto di massima è quello di regolarmente il tuo portafoglio e, se necessario, apportare modifiche per mantenere l’allineamento con gli obiettivi finanziari e la tolleranza al rischio.

Ma prima di ogni altra cosa: informati sulla normativa!

In Italia, gli investimenti sono soggetti a una normativa e a una tassazione specifiche, con le plusvalenze tassate separatamente, attualmente al 26% per la maggior parte degli strumenti finanziari. È consigliabile informarsi adeguatamente su questi aspetti, anche con l’aiuto di un consulente fiscale.

Ma ho un ultimo consiglio, che sicuramente non ti aspettavi:

Non essere sprovveduto.

La finanza non è un giochino da replicare perché ha l’allure del successo e perché nei film sembra facile.

Investire richiede un approccio ponderato e informato. Sembra facile investire – e l’atto in sé lo è – ma senza una solida informazione di base, si rischia.

Meglio viaggiare informati!