Archives for category: Riflessioni sul futuro

Tempo e cultura sono spesso percepiti come entità distinte, ma la concezione del tempo, oltre che indissolubilmente caratteriale, è anche culturale.

Mi è capitato per esigenze lavorative di avere a che fare con persone di diversa cultura. Mi aspettavo di interagire con una gamma diversificata di persone e culture, ma non mi ero mai reso conto che anche all’interno di un solo piccolo paese come l’Italia, possono coesistere due culture distinte, ciascuna con un modo diverso di pensare al tempo.

Le due concezioni del tempo

Una è fortemente guidata da esso; l’altra lo considera in modo blando, dando più peso alle interazioni personali e alle relazioni. Entrambe le priorità sono importanti negli affari, ma cosa succede quando, per esempio, si lavora in una cultura che dà più importanza al tempo e al rispetto delle scadenze e si deve interagire con una cultura che non lo fa?

Fai i tuoi compiti. Imparerai con l’esperienza, ma fare ricerche sulla cultura con cui lavorerai può risparmiarti molti potenziali passi falsi. Il modo più veloce per farlo è semplicemente parlare con le persone con cui lavorerai. Anche se lavorate per la stessa società madre, sedi diverse hanno protocolli e operazioni diverse. Le persone spesso sono disposte a condividere aspetti della loro cultura quando vedono che vuoi far funzionare il rapporto. A loro volta, potrebbero essere più inclini ad essere comprensivi anche verso le vostre differenze culturali.

Comunicare nel contesto della cultura. Per convincere persone di diverse culture a rispettare una scadenza importante, fate appello a ciò che apprezzano. Se si tratta di mantenere buone relazioni, sottolineate come il mancato rispetto di una scadenza danneggerà le relazioni e provocherà una perdita di fiducia.

La comunicazione digitale non è risolutiva

Non dare per scontato che la comunicazione digitale superi le barriere culturali. Diciamo che mandi un’email a qualcuno in Giappone e ti aspetti una risposta veloce a una semplice domanda… ma poi non hai notizie fino al giorno dopo o giorni dopo. Perché potrebbe essere così? Beh, la cultura commerciale giapponese premia il consenso di gruppo. La persona a cui hai inviato l’e-mail potrebbe consultare i membri del suo team e i suoi superiori prima di darti una risposta. Quindi è premurosa e rispettosa, piuttosto che menefreghista, ma questo potrebbe non trasparire dall’email. Puoi chiedere educatamente cosa sta causando il ritardo e gestire le tue aspettative di conseguenza la prossima volta che incontri una situazione simile con qualcuno del Giappone o dell’Asia orientale. La pazienza è la chiave.

Non esiste un approccio unico per affrontare le differenze interculturali. Quando lavorate in più culture, dovete assumere il ruolo di un camaleonte, cambiando i colori a seconda del vostro ambiente. Questo è più facile a dirsi che a farsi, ma raggiungere una vera competenza interculturale non deriva solo dalla conoscenza, ma anche dall’osservazione continua e dalla pratica adattiva. 

 

Tutti noi abbiamo la tendenza a guardare le altre culture attraverso la lente della nostra. Anche se questo è naturale, può portare a malintesi quando si comunica e quando ci si relazione con persone che provengono da altre parti del mondo, e con cui dobbiamo condividere un’agenda. Io ho notato che soprattutto in un campo è difficile trovare accordo: le scadenze.

Per capire come un concetto apparentemente bianco e nero possa essere interpretato in modi diversi, bisogna prima capire come le diverse culture percepiscono il tempo.

Come percepiamo culturalmente il tempo

Le culture occidentali tendono a vedere il tempo come lineare, con un inizio e una fine definitivi. Il tempo è visto come un’offerta limitata, quindi le persone occidentali strutturano la loro vita, specialmente le operazioni commerciali, in base a tappe e scadenze. Non rispettarle potrebbe essere interpretato come una scarsa etica del lavoro o come una forma di incompetenza.

Altre culture percepiscono il tempo come ciclico e infinito. È più importante fare le cose bene e mantenere l’armonia, piuttosto che preoccuparsi di fare le cose “in tempo”. In India, per esempio, le scadenze sono viste come “obiettivi” da rispettare nel contesto di compiti e priorità concorrenti e del danno potenziale che un ritardo avrebbe su una particolare relazione.

Attenzione!

Questo non vuol dire che le culture orientate alle scadenze non si preoccupino di fare bene un lavoro o di coltivare le relazioni, ma fare il lavoro in tempo è il principale motore capitalistico per essere primi sul mercato. Spesso ha la precedenza sul fatto che le relazioni possano essere influenzate negativamente. Il tempo spesso è letteralmente uguale al denaro, in termini di costi, margini di profitto, e battere la concorrenza per la quota di mercato.

Quando queste diverse priorità (compito/tempo rispetto alla relazione) non sono chiare o non vengono prese in considerazione, il risultato sono incomprensioni tra i professionisti che possono portare a frustrazione, perdita di fiducia tra i team, obiettivi e traguardi mancati e persino sanzioni finanziarie.

Stiamo tirando le somme in questi giorni, in cui il periodo del primo lockdown sembra abbastanza lontano per trarre delle conclusioni di massima sulla storia dei consumi.

La domanda numero uno, quando si parla di eBook, è sempre stata: ma la gente si abituerà al nuovo supporto?

Non rimarrà viva una forma di predilezione nostalgica per le pagine fruscianti, profumate di stampa fresca?

Ebbene, la risposta che ci ha dato questo periodo di reclusione forzata è: forse no.

Lo dimostra chiaramente il caso Bruno Editore.

Il caso Bruno Editore

Come riporta l’Ansa, l’editore ha fatturato un 202% in più per la vendita di libri elettronici. Dai libri sulla crescita personale, a quelli tecnici, alla narrativa: quello sopra riportato è il dato delle vendite dei primi nove mesi del 2020, comparato allo stesso periodo nel 2019. 

Un crescita che lascia molto su cui riflettere, anche se, dal mio punto di vista, sarebbe più interessante vedere il tipo di titoli che vengono venduti. Personalmente, ritengo l’ebook un ottimo strumento, sicuramente più ecologico, anche se sussistono diversi dubbi circa lo smaltimento e l’approvvigionamento di risorse.

Ma non sono un esperto, per carità. Quel che conta però è anche l’esperienza unica e ineliminabile del lettore: per me, il libro è prima di tutto cartaceo. Il libro è un oggetto, che viene depositato su uno scaffale e lasciato lì. Un oggetto che accompagna la vita quotidiana, o lo studio, che ricorda momenti dell’infanzia o della prima giovinezza, o degli apici ideologici di qualche settimana prima.

Il processo di digitalizzazione del libro

Insomma, l’avvento dell’ebook, oltre a una rinnovata passione per alcuni temi abbandonati dalla filosofia e prima monopolizzati dalla religione (ad esempio, la crescita personale), significa proprio un’esperienza di fruizione diversa.

Forse i libri cesseranno di essere uno status. Chi della mia generazione non ha vissuto cosa significa “avere una biblioteca a casa”?

Forse la lettura dei libri diventerà quello che dovrebbe essere: una eco sulla persona, un positivo ritorno della lettura in tutti gli aspetti della vita.

Non sto dicendo che con il libro cartaceo non fosse così, e non sto dicendo che mi omologherò a questa tendenza.

Però, forse, stiamo assistendo a un vero e proprio ripensamento del concetto di crescita personale.

Spero di assistervi.

 

Nessuno ha mai allestito una Norimberga per le malefatte risorgimentali, di qualsivoglia parte politica, e quindi i Borbone a processo a Isernia non ci andarono mai realmente. Solo, si registrarono dei moti popolari filo-borbonici, e le conseguenti repressioni.

Questo è stato il pensiero degli organizzatori di un evento in cui mi sono imbattuto ieri, mentre facevo le mie ricerche per la scultura del bambino paleolitico, opera di un’artista francese, tornato in Italia ed ora disponibile alla visione.

Mente spulciavo le cronache locali alla ricerca della data di esposizione della bellissima scultura, a opera di una paleo-artista francese, mi sono imbattuto in un articolo di cronaca.

I Borbone a processo a Isernia: assolti

Vi do un po’ di contesto: nel lontano 2012, in seno alle consuete celebrazioni dell’Unità d’Italia, a Isernia si è svolto un convegno dal titolo curioso, che ho trovato pubblicizzato sulla pagina del Corriere

Il titolo era seguito da questa ulteriore precisazione: 

A Isernia dibattimento-convegno sul ruolo della dinastia ai tempi del Risorgimento. “Sono stati già sconfitti dalla Storia”.

Meraviglioso. Innanzi tutto, vorrei premettere, che senso ha fare un processo storico? Intendo, da questo momento in poi qualcuno si prenderà la briga di modificare la narrazione dominante, che racconta delle angherie dei Borbone? Cosa facciamo, tabula rasa e presentiamo una sommatoria degli episodi di violenze e abusi da entrambe le parti, e infine decidiamo il vincitore e il vinto?

Il processo a Isernia sembrava avere proprio questi connotati.

Non si vince mai

Per questo mi sento di accodarmi alla schiera dei moderati, e di non prendere parte al dibattito. A parte che ormai parliamo del 2012, e sono arrivato un po’ in ritardo. Ma poi, trovo il gioco della riabilitazione abbastanza disonesto. 

Mi spiego: nella storiografia capita spesso che una tesi, per essere notata, accolta, anche solo popolare, debba essere in qualche modo dirompente.

Purtroppo anche gli storiografi, che sono una razza solitamente pacata, non sono esenti dal sensazionalismo.

E quindi, la riabilitazione della parte offesa fa purtroppo parte della storiografia, che sembra dire “no, nella disciplina contemporanea non accettiamo più che la storia la scrivano i vincitori”.

Temo che il buon storiografo debba sì astenersi dal decretare vincitori e vinti nelle proprie pagine. Ma la Storia ha parlato.

E come hanno giustamente detto gli organizzatori del convegno: hanno già vinto i Savoia.

Un incubo per gli insegnanti, forse, alle prese con le nuove prescrizioni anti-contagio.

Un nuovo incubo, per meglio dire, perché già si erano trovati alle prese con le nuove sfide educative della didattica a distanza.

Sembra che sia stata mal digerita da quegli alunni più attivi, che hanno continuato a usare i propri telefoni durante la lezione, indisturbati.

E le verifiche e le interrogazioni? Con i riassunti appesi ai lati dello schermo del computer, ovviamente.

Difficile tracciare una statistica basandosi su dati percepiti come questi, però mi immagino, bambino, davanti a uno schermo che abitualmente uso per giocare.

Nulla potrebbe trattenermi, se mi è possibile, dal giocarci ancora, anceh se inizia la scuola.

Già la lezione frontale non era, da bambini, una delle modalità più entusiasmanti che ci fossero.

Oggi la didattica era quasi riuscita a ovviare all’impedimento del “faccia a faccia” e all’incredibile noia che questo solitamente porta con sé, per i meno adulti.

I laboratori, le lezioni interattive, le visite didattiche… Basta guardarmi intorno, e non c’è parco che non ospiti gite orientate alla botanica, non c’è fattoria che non sia anche “fattoria didattica”.

Insomma, questi bambini si erano appena affrancati dalla frontalità, che subito ci sono ricascati, e attraverso un canale molto più distraente: il video.

Penso che un diverso discorso valga per gli adulti. Io personalmente mi trovo molto incentivato a seguire un video che spiega dei concetti, anche complessi.

Non vi trovo poi così tanta differenza da una vera e propria lezione frontale. 

Va detto che in una persona della mia età le naturali inclinazioni hanno ormai un ruolo marginale: la mia generazione è abituata a leggere testi complessi, a scriverne, e forse siamo stati gli ultimi prima del calo inesorabile delle capacità di scrittura che gli insegnanti di lettere unanimamente lamentano.

Quindi, in conclusione: da insegnante, magari avrei sofferto per il ritorno sui banchi. Da bimbo, ne sarei stato immensamente felice.

Con gli spauracchi e i capri espiatori abbiamo imparato a farci i conti quotidianamente, grazie alla recente epidemia di Covid-19. Potremmo aver calato però involontariamente l’attenzione da altri fenomeni di terrorismo ideologico, concentrandoci su salute e dispositivi medici.

Mentre ci affannavamo per evitare lotte all’untore di manzoniana memoria infatti, alcune immagini di trasmettitori in fiamme in UK ci hanno fatto sobbalzare sulle poltrone.

Gli spauracchi

Il 5G è una nuova forma di tecnologia della comunicazione, che dovrebbe sfruttare l’ampiezza di banda meglio rispetto all’odierno 4G. Dovrebbe anche, dicono gli articolisti meno approssimativi, consentire a chi vive in una zona remota di avere maggiore e migliore accesso a una connessione di buon livello.

Dibattito più attuale che mai, se consideriamo l’enorme risorsa culturale della scuola a distanza, che solo una decina d’anni fa non sarebbe stata pensabile.

Perché la paura

Quindi, che senso avrebbe un’opposizione a prescindere? Non mi addentro nel dibattito, perché mi sono fatto spiegare la questione da persone che lavorano nel settore, e tuttora credo di non avere la competenza tecnologica sufficiente per dirimerlo.

Però posso dire una cosa: mettere a fuoco una struttura di interesse pubblico significa che lo spauracchio è in qualche modo andato a segno.

Al di là della sacrosanta validità di ogni dibattito su ogni innovazione tecnologica, non possiamo non stupirci che un Paese storicamente così civile sia teatro di simili aberrazioni.

Il valore della conoscenza scientifica

Non serve essere engagé per trovare ributtante un simile effetto di una propaganda scientifica che non è stata evidentemente svolta correttamente.

Anche perché, com’è possibile che nemmeno in Italia ci sia un dibattito scientifico che tutti possiamo comprendere? Da un lato ci sono quelli che difendono questa nuova tecnologia a spada tratta, dall’altro i complottisti, che conosciamo come arroccati.

Ma se invece di un marketing martellante si farà una corretta informazione, forse quante antenna la salveremo dalla furia piromane.

Continua dall’articolo sul Coronavirus e sulle sue implicazioni nell’inconscio collettivo, secondo un professore di storia e storia della medicina dell’Università di Yale:

Si potrebbe parlare di tubercolosi, e di quanto fosse diversa nel periodo romantico, nel XIX secolo. È davvero strano, perché, per me, la tubercolosi è uno dei modi più raccapriccianti e dolorosi di morire, dove, alla fine, si soffoca, eppure, d’altra parte, la si fa glorificare con eroine liriche sul palcoscenico che vengono percepite come belle. Oppure “La capanna dello zio Tom”, che non riguarda solo la schiavitù. Riguarda anche la tubercolosi.

Non sono un luddista [possiamo intenderlo come “complottista”, ndr] per quanto riguarda la scienza, ma le scienze a volte hanno delle conseguenze non gradevoli. Prendiamo la teoria dei germi. La teoria dei germi in realtà ha contribuito a stigmatizzare i poveri. La tubercolosi non era una malattia delle classi belle, ma delle classi brutte che erano sporche e povere. Lì, l’intera interpretazione cambia. Se si guarda a “L’immoralista” di André Gide, all’inizio del ventesimo secolo, egli considera il suo stesso caso di tubercolosi come la cosa più spregevole e disgustosa che possa mai accadere. L’idea di una bella malattia è scomparsa per sempre, e la tubercolosi non lo è più.

[…] Non sono sicuro che sia esattamente divertente, ma penso che la reazione di Napoleone alle malattie che stavano distruggendo il suo governo sia stata tragica e grottesca, in un certo senso di umorismo nero, dove non dà valore alla vita dei suoi soldati. È quindi in grado di parlare dell’arrivo della febbre gialla nelle Indie Occidentali come di un insulto personale.

Credo che questo sia qualcosa che potremmo vedere ancora una volta. È qualcosa di cui forse si può ridere. Forse la storia è meglio vederla come commedia a posteriori, ma non credo che quello che sta per accadere quest’anno a proposito di questa particolare epidemia negli Stati Uniti sarà affatto divertente. Avere funzionari alla Casa Bianca che dicono: “Oh, non è altro che il comune raffreddore, abbiamo tutto sotto controllo”, quando non hanno niente sotto controllo, a quanto vedo, e hanno messo al comando persone che non credono nemmeno nella scienza.

L’articolo è finito. Non volevo dar sfoggio di facile opinionismo, anche perché non ho riportato l’intervista integralmente. Però ci sono degli spunti interessanti che forse vale la pena raccogliere.

In continuazione al mio articolo precedente, collegandomi al discorso Coronavirus: le epidemie hanno avuto alcuni aspetti positivi per quanto riguarda la storia dei diritti umani, ma anche diversi risvolti inquietanti:

Sono convinto che il XIX secolo sia stato un periodo terribile, non solo di ribellione ma anche di oppressione politica. Per esempio, il massacro di persone dopo la rivoluzione del 1848 in Francia, a Parigi in particolare, o dopo la Comune di Parigi. Parte della ragione per cui questo fu così violento e sanguinoso era che le persone che erano al comando vedevano le classi lavoratrici come pericolose dal punto di vista non solo politico, ma anche sanitario.

[…] In questo caso, a Wuhan, una città di circa undici milioni di abitanti, e poi nella provincia di Hubei, che conta quasi sessanta milioni di persone, hanno deciso di imporre un blocco.

È una cosa che rimanda a misure messe in atto durante la peste e che si è ripetuta più e più volte, anche nell’epidemia di Ebola. Il problema del cordone sanitario è che è maldestro, come un martello. Arriva troppo tardi e rompe quell’elemento fondamentale della salute pubblica che è l’informazione. Vale a dire che, minacciata dall’isolamento, la gente smette di collaborare con le autorità.

[…]il regime ha cominciato lentamente a cambiare rotta. Si vede che, col passare del tempo, i cinesi sono stati molto diligenti nel raccogliere i documenti, cercando di suscitare la cooperazione della popolazione, in un certo senso per riparare i danni dei primi tempi. 

Da questa parte in poi l’articolo si concentra sulla risposta che gli artisti hanno dato alla “peste”. Intendendo anche le risposte artistiche dei singoli. Diciamo, più in generale, le visioni creative che l’epidemia ha suscitato.

Ne parleremo nel prossimo post. Anticipo intanto che non parleremo più di Manzoni. Se mai qualche mio lettore ne fosse appassionato…

Continuo dal mio articolo precedente, collegandomi al discorso Coronavirus e a quanto le epidemie facciano spesso emergere i più reconditi e inconsci sentimenti di una collettività.

Quando Bruce Aylward, che ha guidato la missione dell’OMS in Cina, alla fine è tornato a Ginevra, ha detto che la cosa più importante che deve accadere, se vogliamo essere preparati ora e in futuro, è che ci deve essere un cambiamento assolutamente fondamentale nella nostra mentalità. Dobbiamo pensare che dobbiamo lavorare insieme come specie umana per essere organizzati per prenderci cura l’uno dell’altro, per renderci conto che la salute delle persone più vulnerabili tra noi è un fattore determinante per la salute di tutti noi, e, se non siamo preparati a farlo, non saremo mai e poi mai pronti ad affrontare queste sfide devastanti per la nostra umanità.

Beh, è un pensiero molto triste, se posso dirlo, perché penso che sia improbabile che si verifichi un tale cambiamento di mentalità.

[…] Credo che questo sia qualcosa che fa emergere anche le più alte qualità. In effetti, si scrivono anche romanzi su questi grandi eventi. Influisce sulla nostra letteratura e sulla nostra cultura. Penso al grande romanzo sulla peste, che è “I Promessi Sposi”, del romanziere italiano Alessandro Manzoni. Parla dell’arcivescovo di Milano, il cardinale Borromeo, che entrò nelle case dei parassiti e fu disposto a sacrificare la sua vita per prendersi cura dei più poveri e dei più malati del suo gregge.

[…]

il successo della ribellione haitiana e di Toussaint Louverture è stato determinato soprattutto dalla febbre gialla. Quando Napoleone inviò la grande armata per ripristinare la schiavitù ad Haiti, la ribellione degli schiavi ebbe successo perché gli schiavi africani avevano l’immunità che gli europei bianchi che erano nell’esercito di Napoleone non avevano. Questo portò all’indipendenza haitiana. Anche, se si pensa dal punto di vista americano, fu questo che portò alla decisione di Napoleone di abbandonare la proiezione del potere francese nel Nuovo Mondo e quindi di accordarsi, con Thomas Jefferson, nel 1803, con l’Acquisto della Louisiana, che raddoppiò le dimensioni degli Stati Uniti.

(Continua)

 

Ho trovato un articolo interessante sul New Yorker, che parla di come le epidemie nel corso della storia abbiano modificato il sentire della gente. Non ho potuto non riferirlo ai recenti fatti da Coronavirus.

Senza pretese accademiche ho provato a tradurne alcuni brani che ho trovato più interessanti.

Il libro di cui parliamo è “Epidemie e società: Dalla peste nera al presente”, di Frank M. Snowden, professore a Yale di storia e storia della medicina. In sostanza, lo studioso ripercorre gli effetti negativi che le epidemie hanno avuto nell’indirizzare le peggiori discriminazioni contro fasce sociali già non certo privilegiate. Vediamo:

Le malattie epidemiche non sono eventi casuali che affliggono le società in modo capriccioso e senza preavviso. Al contrario, ogni società produce le proprie specifiche vulnerabilità. Studiarle significa comprendere la struttura della società, il suo tenore di vita e le sue priorità politiche.

[…]

Le epidemie hanno a che fare con il nostro rapporto con la nostra mortalità, con la morte, con la nostra vita. Riflettono anche le nostre relazioni con l’ambiente, lo spazio che ci costruiamo attorno e l’ambiente naturale che risponde ai nostri stimoli. Mostrano le relazioni morali che abbiamo l’uno verso l’altro come persone.

[…]

Lo scoppio della peste, per esempio, ha sollevato l’intera questione del rapporto dell’uomo con Dio. Come è possibile che un evento di questo tipo possa accadere con una divinità onnisciente e che desidera il bene? Chi permetterebbe che i bambini siano torturati, così orribilmente in così tanti? La peste ha anche avuto un effetto enorme sull’economia. La peste bubbonica uccise metà della popolazione vivente e, quindi, ebbe un effetto enorme sull’avvento della rivoluzione industriale, sulla schiavitù e sulla servitù. Anche le epidemie, come stiamo vedendo ora, hanno effetti tremendi sulla stabilità sociale e politica. Hanno determinato gli esiti delle guerre, e a volte possono anche essere la causa dell’inizio di guerre.

(continua)