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Me lo sono già chiesto relativamente alla retribuzione, e ora è necessario allargare il discorso alla proprietà intellettuale: di chi è la riproduzione 3d di una città?

I Buddha Bamiyan

Mi ricordo la morsa di sconforto che colse l’opinione pubblica, quando nel 2001 circolò la notizia che i Taliban avevano distrutto i Buddha Bamiyan. Un paio d’anni dopo l’Unesco li ha inseriti nel proprio Patrimonio dell’Umanità, promettendo di risanarli dagli ingenti danni subiti.

Uno dei risanamenti più consistenti, emblematici, se vogliamo, è la digitalizzazione. Laddove l’ambiente dei Buddha è stato digitalizzato per consentirne la visione, si possono vedere le statue nella loro bellezza originaria: prima che gli stucchi venissero lavati via dalle intemperie, gli angoli della viva roccia smorzati, il colore pian piano omologato a quello del resto della montagna per ossidazione.

Almeno, questo dovrebbe essere il proposito della digitalizzazione.

Ma quindi, di chi sono?

E arriviamo alla domanda: a chi appartengono i cultural data prodotti grazie a competenze specifiche, e anche con una certa dose di senso artistico, da questi archeologi digitali?

Più che di proprietà sulle tecniche di lavoro, quindi, ha senso pensare: l digitalizzazione, cambiando l’ambiente di fruizione dell’opera, diventa un prodotto privato? E’ una distinzione importante, perché il prodotto privato cambia totalmente nelle modalità di fruizione.

E chi ha la mia età non può non ricordarsi gli entusiastici pellegrinaggi dei buddisti occidentali a visitare i Buddha Bamiyan, massima esposizione del Buddismo del Centrasia del III  e V secolo.

La fruizione

Quindi, la fruizione delle singole opere digitalizzate metterà chiaramente in discussione la loro natura “pubblica”. Tralasciando per un momento il discorso sul diritto d’autore: l’unico parametro per valutare se un cultural data verrà considerato pubblico o privato, sarà vedere a chi è destinata la fruizione, e come avviene.

Solo in base a queste considerazioni squisitamente pratiche riusciremo a capire di chi è il patrimonio artistico digitale.

 

Maestro del fundraising“, così qualcuno ha chiamato il nuovo direttore del MET di New York, Max Hollein.

Recessione per tutti

La recessione c’è stata per tutti, in particolar modo per le strutture museali. La situazione è generalizzata, negli States come in Europa, mentre forse in Cina (l’altro mio campo di competenza) si assiste ancora a un mercato in crescita. Certo, ci sono realtà in crescita netta e a tratti surreali, come gli Emirati Arabi, per fare un esempio, ma consideriamo la situazione “occidentale”: il mercato dell’arte è un pugile ferito, che si ritira nell’angolo a farsi massaggiare e a pensare alla prossima strategia.

Il fundraising e le strategie

Questa strategia è, oltre alla promozione, il fundraising. Se le cronache dicono il vero, Max Hollein da quando aveva trent’anni dirige musei, ora ne ha 48. Ha cominciato con il Guggenheim, tanto per dire, dirige il Fine Arts Museum di San Francisco, e da agosto si occuperà anche del Met.

Esperto di nuove tecnologie e laureato in economia, sarà senza ombra di dubbio la figura necessaria per risanare i buchi di bilancio che vengono attribuiti a Thomas Campbell (chissà poi qual è la reale catena delle responsabilità).

Come ho già detto altrove, la capacità di raccogliere fondi, di trovare sponsorship, di fare rete, è quanto i musei necessitano oggi.

Venuto meno un finanziamento statale univoco, e qui parlo dell’Italia, venuta meno anche un’élite di funzionari dello spettacolo, dobbiamo tornare alla figura dell’impresario.

L’impresario calante

Non dico che negli anni ’40 tale figura fosse scemata. Credo anzi che si tenda troppo spesso a insegnare nelle scuole che sono la crème culturale italiana (io ho fatto un liceo classico, ai tempi che furono), che la cultura è in qualche modo astrazione. Dinamica, magari, se si ha fortuna con l’insegnante, e non statica, ma pur sempre astratta. Parlo dei miei coetanei che al momento potrebbero essere ai vertici di importanti istituzioni museali.

Comunque, vedremo se l’austriaco Hollein saprà dimostrare che un impresario è quello che serve a New York. E vedremo se il costo del biglietto tornerà a zero.

 

D’altro canto anche la fiscalità ha inseguito l’arte per inseguirne il denaro sottostante, talvolta a buon diritto quando nasconde l’evasione, talaltro penalizzando un settore creativo che avrebbe invece bisogno di maggior fiducia e agevolazioni.

Così scrive Marilena Pirrelli a proposito del mercato dell’arte italiano. La trovo un’analisi molto lucida e comprensiva di tutti i fattori in gioco. Lei parla di “resistenze e esclusività”, riferendosi probabilmente alle sacche arenate dove la promozione non ha capito che si deve rivolgere a investitori generosi, ma anche, e soprattutto, fare rete.

Impresa culturale e creativa

Sembra che il networking, o il “fare rete”, sia la necessità prima alla quale deve votarsi ogni amministratore pubblico, ma anche ogni soggetto privato, per riuscire a intravedere uno spiraglio di successo.

È stato fatto un grande lavoro da parte della commissione Cultura della Camera che si è tradotto, dopo la falcidia della Commissione Bilancio, in una definizione. Sembra nulla ma in realtà è un passo importante: il riconoscimento delle Icc (Impresa culturale e creativa) non è cosa così scontata e rappresenta un lascito importante alla prossima legislatura. Con l’introduzione in Manovra poi di un credito di imposta, per quanto limitato, il segnale dell’importanza del settore culturale per l’economia nazionale diventa ancor più evidente.

Necessario cambiare la normativa

Questi fattori sono evidentemente di natura politica: la politica fa una scelta di campo, che è quella della promozione, e ricapitalizza le imprese che si dedicano alla cultura. Ma poi la normativa si deve adeguare a questi cambiamenti, e intervenire in senso logistico. Ecco che la maggior parte delle attuali leggi sulla promozione a valorizzazione culturale appartengono al periodo del Ventennio.

Alcuni provvedimenti

Qualche provvedimento positivo c’è, e li cita anche Pirrelli nell’articolo che ho riportato. Sono la legge 124 del 4 agosto 2017 , che vuole semplificare la circolazione internazionale dei beni culturali. In discussione c’è poi la legge sui delitti contro il patrimonio culturale. Tutti segnali positivi, ma bisogna attendere gli sviluppi normativi per capire se l’impatto sarà davvero rivoluzionario, com’è ora che avvenga.

Editore: Buongiorno egregio Diderot, si sieda pure. E’ un honneur averVi qui tra noi. Confidando che Vossignoria vi siate ripresi dall’orrenda quanto scandalosa prigionia, ci apprestiamo a farVi firmare un contratto di prestazione non occasionale con noi.

Diderot: Bonjour mon editeur, e grazie per avermi strappato dalle catene, fuor di metafora ma anche dentro la metafora. Sono onorato io pure di una simile scelta, per quanto sarebbe da mia parte vanteria ingenua non capire perché il Vostro occhio si sia su di me posato.

Editore: Certo, potete ben capirlo. Siete l’unico in tutta la Francia, grande madre e tiranna dei nostri ingegni, che avrei potuto contattare. Ma ecco, vi spiego il mio proposito: vorrei tradurre, a DeaRagione piacendo, “Cyclopædia, or an Universal Dictionary of Arts and Sciences” dell’Egregio Ephraim Chambers, esimio intelletto londinese.

Diderot: Lo ben conosco, il collega londinese! Però vede, cher Breton, sono due volumi in folio, è una bella fatica. Ed io ecco, per usare un eufemismo tanto caro ai Ns Governanti, sono al verde.

Editore: Certo certo, comprendo il suo bisogno di lavorare, e apprezzo la sua anti-aristocratica e ragionevole richiesta. Verrà adeguatamente remunerato per il suo lavoro, da me richiesto e non spontaneo.

Diderot: Ma ecco, editore, visto che siamo in argomento, finanzierebbe anche un progetto più grandioso? Pensavo, una Enciclopedia delle arti e dei mestieri, interamente francese, con voci raccolte con mezzi francesi, in aziende francesi, che documenti lo stato dell’arte e della tecnica in Patria. Io lo farei per amor di scienza ma, come già detto, mio padre m’ha diseredato e in qualche modo devo mangiare e sfamare le mie, pardon “la mia” famiglia.

Editore: Ma certo, ma certo, non si preoccupi. Verrà remunerato per la sua spontanea attività intellettuale, come si remunera un manovale che presta la propria opera a un datore di lavoro prima, ma successivamente alla collettività. Certo, se socialmente fosse concepito un sostentamento per tutti, sarebbe diverso. Ma siamo in Francia, che vuole che sia. La pagherò.

(Questo l’ipotetico dialogo intercorso tra André Breton e Denise Diderot, per la retribuzione dell’enciclopedia, a riflessione spontanea sul diritto di retribuzione del lavoro culturale)

E’ la fine del 1750 e nei salotti francesi buoni e in odore di illuminismo si aggira una curiosa stampa. E’ il Prospectus dell’Encyclopèdie, che riporta la data di stampa del 1751, in una perfetta operazione di marketing che mira a promuoverlo adeguatamente nei circoli che contano.

La domanda che mi collega al discorso di una enciclopedia retribuita è: chi paga?

Gli editori

Così scrivono gli editori del progetto Encyclopedie, facendo scarcerare Diderot da Vincennes, dove stava rinchiuso«Quest’opera, che ci costerà 250.000 lire – scrivono – e per la quale ne abbiamo già spese più di 80.000, stava per essere annunciata al pubblico. La detenzione del signor Diderot, l’unico uomo capace di un’impresa così vasta, e il solo che possieda la chiave di questa operazione, può significare la nostra rovina!» (così dice Luciano Canfora nella sua introduzione alla traduzione italiana del Prosectus nei “Quaderni di varia cultura”, al quaderno 01, della Fondazione Gianfranco Dioguardi. La traduzione è di Francesco Franconieri).
Stiamo parlando del 1749, Diderot verrà scarcerato dopo soli tre mesi, e il suo progetto di Enciclopedia sarà un lasciapassare pubblico che gli consente di proseguire il suo lavoro intellettuale, interrotto dalla censura governativa.
Ma la parte più interessante è che il progetto ottiene “1002 sottoscrizioni dell’opera intera” (spiega Canfora). Una sorta di crowdfunding ben riuscito.
E’ abbastanza istintivo evincere da questi fatti che chi ci guadagnò veramente dal progetto editoriale furono gli editori. Non ci è dato sapere se gli enciclopedisti percepissero un compenso, come già gli autori del “caffè” milanese, che però era un periodico.

Rimborsi spese

Il lavoro giornalistico era certamente retribuito, tant’è che già la professione di giornalista andava formandosi. Invece li lavoro enciclopedico nasce sulla scorta di una spontanea abnegazione, oltre a un’implicito classismo sociale che assegnava ai ricchi di famiglia la possibilità di dedicarsi alle culturali applicazioni.
C’è anche da dire che Diderot nell’introduzione istituisce un parallelismo tra il reperimento di informazioni che ha fatto e quanto avrebbe potuto fare andando presso artisti. Cita i “soldi in mano” necessari per questi ultimi, e abbiamo buone ragioni di credere che le “consulenze” elargitegli le remunerasse ampiamente.
Che esistesse un rimborso spese per il suo lavoro? Ne dubito fortemente. Ma nel prossimo post parlerò di come la mutazione sociale impedisca la riproposizione di questo genere di schema.

Mi sono poi scordato di aggiornare lo status del numero chiuso alle facoltà umanistiche alla Statale di Milano. Ne parlavo a settembre in questo intervento.

Vinto il ricorso al Tar, la facoltà ha deciso di non appellarsi al Consiglio di Stato sul numero chiuso.

Il numero dei partecipanti è stato così mantenuto aperto, come negli anni precedenti, per i corsi di laurea in Filosofia, Lettere, Scienze dei Beni culturali, lingue e letterature straniere, Storia, Scienze umane dell’ambiente, del territorio e del paesaggio. Esultanza dei collettivi universitari a parte, non sembra che in Senato Accademico fosse disposto a retrocedere, almeno a quanto si evince dai giornali.

Piuttosto, la necessità di garantire il regolare svolgimento delle lezioni ha avuto la meglio, la contingenza ha sopravanzato l’idea. Ma l’idea permane, solo penso avrà bisogno di un contraltare nazionale, per ora assente (il ministro Fedeli ha infatti mostrato assenso più verso la riapertura che altro).

Non sono incline all’appello accorato, ma riflettiamo quanto sia l’ammontare di capitale umano che si forma dietro quei portoni. Il numero chiuso renderebbe professionalizzanti dei corsi di studi che non sono nati per esserlo. Perché non mettere l’onesta premessa che “qui si studia per migliorare le proprie persone”? Capisco la frustrazione di non ottenere una adeguata remunerazione dopo anni di studio. Ma limitare il sapere? Se io volessi iscrivermi a Filosofia domani? Non ho necessità professionalizzanti, voglio solo avere i migliori insegnanti per veicolarmi la scuola di Francoforte, l’idealismo, voglio magari dare una veste strutturata all’ultimo libro che ho letto.

E’ una parzialissima analisi, come la precedente. Ma non può che suonarmi sospetta questa chiusura di numero, sospetta per il decremento della qualità globale dell’istituto universitario della prestigiosa Statale di Milano.

Sebbene la nota mensile sull’andamento dell’economia, prodotta dall’Istat, sia da prendere in un contesto e non come valore assoluto: mi sento quasi di tirare un sospiro di sollievo.

Non mi sono pronunciato finora troppo sulla “ripresa”, i cui effetti sono meno evidenti della crisi.

Riporto dei dati letti qualche giorno fa sul Sole 24ore:

La revisione dei Conti economici trimestrali, rileva l’Istat, ha evidenziato nel secondo trimestre un aumento congiunturale del Pil pari al +0,3%. La domanda nazionale al netto delle scorte ha contribuito per 0,3 punti percentuali alla crescita del Pil (+0,1 i consumi delle famiglie e +0,2 gli investimenti fissi lordi). L’apporto della variazione delle scorte è stato positivo per 0,4 punti percentuali, mentre è risultato negativo quello della domanda estera netta (-0,3 punti percentuali). Con un aumento congiunturale delle importazioni di beni e servizi (+1,2%) e una variazione nulla delle esportazioni. Dal lato della domanda, è proseguito l’aumento dei consumi finali nazionali. Seppure con una dinamica più lenta di quella registrata nel trimestre precedente (+0,2% la variazione congiunturale in volume, da +0,6%).

Ricordavo di averlo scritto in qualche forma, per quanto io non mi sbilanci a seguire questi megafoni che inneggiano alla ripresa, come non mi sono mai stracciato le vesti pontificando sulla crisi economica. Citavo Robert Coen e la necessità di investimenti infratrutturali. E l’export, e la competitività… Volendo essere iper-sintetico mi sono rifugiato magari nel mantra.

Vediamo se il sospiro di sollievo dura.

Il palazzo dell’Anteo a Milano inaugura finalmente la sua veste di tempio del cinema. Con ben 11 sale cinematografiche, tra cui una con film on-demand, una per i film in lingua originale e una con annesso ristorante. Per aggregazione si aggiungono una nursery e un Caffé letterario.

Molt suggestiva la scelta di intitolare le sale a cinema storici della città come Excelsior, Astra, President, Rubino, Astoria, Obraz. Si parla di sale ora chiuse.

All’inaugurazione Cristiana Capotondi e Claudio Bisio, che ha definito coraggiosi i soci dell’Anteo. L’orario d’apertura è sicuramente coraggioso e competitivo, dalle 10 del mattino fino all’una di notte. All’interno sarà presente anche la Biblioteca dello Spettacolo, con libri, documenti, saggi e cataloghi.

Quello spirito imprenditoriale di cui ho già parlato investe anche uno dei rami dell’industria dello spettacolo rimasti più vivi. La settima arte si può dire sia rimasta infatti una forma d’intrattenimento piuttosto popolare, anche purtroppo nel senso deteriore. Ma stavolta sono speranzoso: la programmazione della  sala Obraz prevede ad esempio “Il diritto del più forte” di Fassbinder e “L’infernale Quinlan” di Orson Welles, con una superba Marlene Dietrich.

Trovo innovativa l’uscita dal formato proiezione-sala buia-attenzione sul film. Come nei teatri d’opera di un tempo, nella sala ristorante (gestita da Eataly) si può mangiare guardando il film. Wagner introdusse il buio in sala, e mi Hitchcock la chiusura delle porte a film iniziato.

Ma staticità non è sinonimo di tradizione.

La tradizione è ciò che viene “tràdito”, raccontato, e non vorrei sfociare nella banalità, ma trovo una boccata d’aria fresca questa sala ristorante. Altra suggestione che mi evoca, le gigantesche chiese protestanti anglicane con ristorante all’interno. Più che di tradizione gastronomica parlerei proprio di traslazione di un bisogno culturale: da oggetto di attenzione assoluta, a primaria gioia della fruizione, accompagnabile liberamente con un atto come il pasto?

Sono speculazioni, ovviamente. Complimenti al coraggio dei soci dell’Anteo, comunque.

Robert Coen economista ed esperto di investimenti e sviluppo, lo aveva previsto nel 2000:

“L’Europa subirà un calo della competitività a livello mondiale per l’arrivo dei nuovi Paesi emergenti”.

Il consiglio di Robert Coen

I Paesi che appartengono all’Unione Europea, si leggeva nel suo studio:

“devono rafforzare le loro politiche di bilancio e condurre con più rigore il risanamento dei conti mentre devono accelerare sulla strada delle riforme istituzionali“.

Un invito per anni disatteso e che ha portato una crisi economica dalle grandi proporzioni.

Oggi possiamo superare la crisi con forti investimenti nelle infrastrutture.

Lo scopo? Ottenere uno sviluppo industriale capace di aumentare la competitività e le esportazioni.

Conversazione con Laura Gherardi: Il banchiere privato

Paolo Bassi. Dopo il liceo, qui a Milano, sono partito per Trento per studiare Sociologia. In quegli anni – era il 1968 – Trento era una comunità universitaria in fermento dentro una città ostile, molto conservatrice.

Una città diversa da Roma, Milano e Torino, e Sociologia era una novità per l’Italia. Lo stesso movimento degli studenti era molto internazionale, collegato con gli studenti berlinesi e francofortesi, in larga parte allievi di Adorno.

Poi, dopo un paio di anni, il movimento è caduto in un degrado assoluto, con diverse frange combattenti a disputarsene le spoglie. E così mi sono messo in movimento e ho deciso di girovagare per le università europee, un girovagare fisico e intellettuale che è durato tre anni, mantenendomi con piccoli lavori e con periodici ritorni a Trento per seguire i corsi che reputavo utili o interessanti e per fare gli esami.

Poi si è laureato e ha iniziato a lavorare nella consulenza…

P.B. Alla LSE avevo conosciuto un professore che lavorava nella consulenza in Italia, ed è stato lui che mi ha introdotto alla società di Pietro Gennaro, a quel tempo il “guru” della consulenza aziendale. Lì ho trovato il mio filo conduttore.

Pietro Gennaro è stato uno dei fondatori della consulenza strategica in Italia, trasferiva il sapere americano nelle aziende italiane, che erano ancora le aziende delle grandi famiglie. In questo campo potevo esprimere una parte di me che nei contesti a cui ero abituato era sacrificata e, nello stesso tempo, materie come la psicologia e l’antropologia mi erano estremamente utili. I miei colleghi, invece, avevano una conoscenza specialistica, venivano per lo più da economia, dalla Bocconi.

Le cose tecniche si imparano presto, ma nella consulenza serve una formazione che non si acquisisce sui manuali, bensì frequentando e lavorando con persone “indisciplinate” quanto a modo di pensare e affrontare i problemi, cioè abituate a pensare in forma non convenzionale, fuori dalle discipline codificate dall’università. Persone che conoscono i cento casi studi di successo, ma sono pronte ad abbandonarli per crearne uno nuovo.

È più utile aver letto Omero da giovane in greco, o saper distinguere le costellazioni in ogni emisfero, che leggere il primo libro nella classifica delle riviste manageriali. Il grande consulente Peter Drucker ci teneva a sottolineare di essere un puro prodotto del ginnasio tedesco degli anni trenta.

In quegli anni ho imparato cosa fosse il value for money, cioè dare al cliente e alla sua attività valore e non chiacchiere. Il dopo Gennaro è legato a un gruppo che avevo incrociato a Boston. Si chiamava MAC Group, al suo interno vi erano persone per le quali avevo lavorato e con loro è iniziata un’attività molto ampia, davvero internazionale.

L.G. Poi è entrato in Montedison.

P.B. Sì. Avevo conosciuto, sempre per lavoro, Mario Schimberni e quando è diventato presidente della Montedison mi ha chiamato nel gruppo di strategia, e quella è stata una storia straordinaria.

Straordinaria perché con lui è entrata in Montedison, nel quartier generale di Foro Buonaparte e all’Istituto Donegani, una generazione di professionisti giovani. E lui, pur con il suo carattere ruvido, sapeva ascoltare. Straordinaria, inoltre, perché in Montedison abbiamo fatto tutto quello che poi in Italia è diventato comune: la prima quotazione con il doppio listino, a Milano e New York, acquisizioni negli Stati Uniti quando nessuno le faceva, ristrutturazioni, cessioni, una comunicazione tutta culturale, con una particolare attenzione agli aspetti scientifici.

Per me è stata una palestra formidabile. Venivano consulenti dall’America: Michel Porter era di casa, ma anche Kissinger. Venivano le banche d’affari. Era un mondo che prima ignoravo o di cui avevo una conoscenza molto vaga. Ho assorbito tutti questi stimoli, poi, nel 1987, il settembre nero, il crollo di Wall Street: avevamo metà delle attività negli Stati Uniti, in un attimo calate del 50%.

Schimberni stava creando una public company. Quella di Montedison era ormai una storia di successo e questo attirava le invidie dell’establishment, ma soprattutto lui aveva guidato scalate ostili e questo non gli è stato mai perdonato. È stato allontanato a seguito della scalata di Gardini alla Montedison con la benedizione dell’élite industriale e finanziaria.

Per un po’ sono rimasto, mi occupavo della parte internazionale.

L.G. Quindi i suoi viaggi all’estero continuavano ed erano frequenti.

P.B. L’America, l’ho girata tutta, facendo spesso colazione in una città e cenando in un’altra.

I viaggi erano un paio a settimana e mi piaceva moltissimo: gli aeroporti sono oggi quello che il porto era ieri. Nel frattempo continuavo la mia attività

di consulente, qui a Milano, dove ho sempre tenuto un ufficio, fin da giovane, in cui seguire i clienti, perché ho sempre pensato di non dovermi legare a uno specifico incarico, qualunque esso fosse. Nello stesso periodo ero anche nel Consiglio di amministrazione della Popolare di Milano, di cui in seguito sono stato nominato vicepresidente, poi presidente dal 1996 al 2001.

La Banca aveva filiali a Londra e negli Stati Uniti: ho fatto, per esempio, il primo collocamento di un’obbligazione sul mercato borsistico americano di una banca popolare italiana.

L’effervescenza era laggiù, quindi continuavo a viaggiare in America. In quegli anni ho anche organizzato alla Popolare alcuni incontri internazionali con la partecipazione di intellettuali e scienziati che vivevano all’estero, come Luigi Luca Cavalli-Sforza.

Il primo confronto internazionale tra il fondatore della genetica delle popolazioni, Cavalli-Sforza, e la sua scuola, e gli studiosi delle origini indoeuropee della nostra civiltà è stato fatto nel salone della Popolare. Oltre ai genetisti, c’erano linguisti come Ruhlen e Villar, archeologi come Renfrew e Lehmann, indologi come Sergent, filologi come Mallory e grandi “irregolari” come Bernal e il nostro Semerano.

Promuovere iniziative di respiro internazionale, al di là delle sovvenzioni alla Scala, mi sembrava il modo in cui un’importante banca “glocale” – di territorio, si direbbe oggi, per i territori del mondo – dialogava con la città. Ma Milano era già in declino: una città vivace, ma liquida: una liquidità mercuriale associata a una liquidità da palude.

Per non apparire troppo pessimista posso pensare, come certi materialisti dell’Ottocento, che in fondo nell’acqua stagnante può fermentare la vita…

L.G. Di Milano ha vissuto tutte le trasformazioni degli ultimi decenni.

P.B. Tutte. Ricordo le pecore in quello che adesso è appena fuori dalla seconda cerchia dei Navigli e che negli anni cinquanta era campagna. Sono nato a Ferrara, ma i miei genitori si sono subito trasferiti a Milano. Sono milanese anche come cultura, a tutti gli effetti: ho fatto le elementari in via Lorenteggio, un insediamento di immigrati, non ci capivamo

perché ognuno parlava il proprio dialetto.

Fino al 1992, la cultura diffusa a Milano era quella lombarda, “protestante”, ovvero univa sobrietà e responsabilità sociale e civile; poi da un lato l’immigrazione dal Sud di professionisti, avvocati, professori ha un po’ sgretolato questo nucleo, dall’altro nel 1992 è stata liquidata un’intera classe dirigente.

La città ha iniziato a diventare sempre più piccola, irrilevante, e l’asse si è spostato su Roma. Roma è già un po’ più aperta, ma siamo comunque lontani da Londra, la città più internazionale che abbiamo in Europa.

L’esempio più calzante di che cos’è Londra lo percepisci nel primo ristorante in cui ti fermi. Un vero microcosmo, dove l’inglese che senti è una lingua franca parlata da persone le cui lingue madri sono praticamente tutte diverse.

L.G. Dopo la presidenza della Popolare quali attività ha svolto? P.B. Quando sono uscito dalla Popolare ho ricominciato a fare il consulente, un’attività che chiamo banchiere privato. Mi occupo di strategie aziendali, di trasferire qui il mio sapere e le mie relazioni.

Infatti, nel mio vantaggio competitivo rientrano le relazioni che ho intrecciato negli anni con persone che appartengono alle élite dirigenti e bancarie degli altri paesi. A Milano ci sono i clienti, è però una rete locale ma debole, perché si fa fatica a scambiare, a creare meccanismi di reciprocità.

Quindi, uscito dalla Popolare, ho ripreso il mio lavoro originario seguendo clienti in Italia e all’estero e creando il mio gruppo, Charta Group – nome

che ricorda la Magna Charta –, il quale riunisce un insieme di società.